Vincitore della prima edizione del Man Booker Prize asiatico e forte di venti milioni di copie vendute, "Il totem del lupo" di Jiang Rong (pseudonimo dello scrittore Lu Jiamin, intellettuale che ha anche partecipato alla rivolta di piazza Tienanmen nel 1989) è il libro cinese più popolare della nostra epoca, talmente amato che persino i lusinghieri incassi della trasposizione cinematografica (110 milioni di dollari a fronte di un budget di 40, decisamente uno dei film che ha incassato meglio in Cina quest'anno) secondo qualcuno lascerebbero a desiderare considerato il potenziale costituito dai lettori del libro.
Sorta di variante di "Nata libera", racconta l'esperienza di Chen Zhen, giovane studente di Pechino che con l'amico Yang Ke viene incaricato dal Partito Comunista di trascorrere due anni insieme a una tribù di pastori mongoli, per insegnare il mandarino ai nomadi. In verità sarà lui a imparare gli usi e i costumi di una comunità lontanissima dalla rivoluzione culturale (siamo nella seconda metà degli anni Sessanta), che più che il "libretto rosso di Mao" ha a cuore il rapporto con la natura che li ospita e li nutre. Chen (alter ego dell'autore) è particolarmente colpito dai lupi della steppa, considerati dai pastori quasi come delle divinità o comunque delle figure da guardare con timore e rispetto e con le quali vivere in equilibrio. Quando i funzionari di partito in loco ordinano ai pastori di sterminare tutte le cucciolate di lupacchiotti, pensando così di prevenire le razzie di pecore che si stanno verificando (in realtà conseguenza della razzia che alcuni ladri di gazzelle hanno fatto delle scorte di cibo che i lupi si erano messi da parte), Chen decide di salvarne e adottarne uno, malgrado il parere negativo degli amici pastori (in particolare il saggio Bilig e la di lui figlia Gasma, giovane vedova). Ma "fare di un Dio un servo" non è nell'ordine delle cose e Chen sarà costretto a restituire l'amico "Lupetto" alla steppa, una volta sinceratosi che sia in grado di sopravvivere dopo tutto quel tempo trascorso fra gli umani.
Coproduzione franco-cinese, il film è stato affidato alle mani esperte di Jean-Jacques Annaud, il globetrotter del cinema d'oltralpe. Dal suo esordio con "Bianco e nero a colori" che vinse l'Oscar come miglior film straniero nel 1976, realizzato nella Costa d'Avorio (tra l'altro fu la prima vittoria della celebrata statuetta da parte di un paese africano), lo abbiamo visto muoversi con molta disinvoltura nello spazio e nel tempo. Dalla preistoria della "Guerra del fuoco" alla Grecia arcaica di "Sa Majestè Minor", dalle abbazie medievali del "Nome della rosa" alla Arabia primo novecento del "Principe del deserto" fino alla Stalingrado assediata dall'esercito nazista del "Nemico alle porte". Una filmografia non ricchissima ma abbastanza spiazzante, e comunque piuttosto amata dal pubblico. Nel suo girovagare l'estremo Oriente era già stato preso in considerazione, prima con "L'amante", tratto dal famoso libro autobiografico di Marguerite Duras (la quale non amò per niente la versione cinematografica), poi con "Sette anni in Tibet" (anche se girato in altre location per evitare problemi col governo cinese, che ugualmente si presentarono). Nonostante la censura del film dedicato al Dalai Lama, Annaud è stato probabilmente ritenuto adatto soprattutto per la sua esperienza con gli animali sul set già dimostrata in pellicole come "L'orso" e "Due fratelli", e in effetti le scene cui partecipa il branco di lupi sono realizzate con maestria.
I film con animali protagonisti sono spesso accusati di far leva su emozioni facili e indubbiamente in questo sta spesso la chiave del loro successo. Da "Tutti a casa Lassie" al "Cucciolo", fino ad arrivare al recente (e modesto) "Io e Marley" in quanti non si sono commossi nei passaggi più smaccatamente melodrammattici? Non è quindi sorprendente che i momenti più strazianti incentrati sui lupi risultino molto commoventi, nonostante l'intento di Annaud e della sua troupe non fosse quello di realizzare un'opera ricattatoria. "L'ultimo lupo", infatti, è un film sull'arroganza dell'uomo, signore e padrone illegittimo del pianeta e del cosmo, sulla perdita del contatto, con tutte le gravi conseguenze che questo comporta. L'aspetto "ecologico" della vicenda è fondamentale: la tribù di nomadi, coprotagonista a tutti gli effetti, assieme ai lupi e al Tengger, prima dell'avvento della Cina comunista è perfettamente inserita nell'ecostistema, grazie all'esperienza e alla saggezza millenaria che la connette in maniera simbiotica con il suo habitat. E' stato fatto notare come il film (forse perché il regista voleva stavolta tenersi alla larga da noie con la censura) abbia attutito il tono polemico del libro, tuttavia in esso la contrapposizione fra i pastori e i membri del partito, con le simpatie che vanno tutte per i primi, è credibile.
Chen è interpretato dal bravo Feng Shaofeng che purtroppo non è aiutato da un arco drammatico completamente sviluppato, così come gli altri personaggi che risultano delle figure funzionali appena accennate. Il meraviglioso branco di lupi (allenato per tre anni da Andrew Simpson) ruba la scena agli attori in carne e ossa, anche grazie alla fotografia di Jean-Marie Dreujou, che oltre a regalarci paesaggi di ammaliante bellezza, dedica agli animali primissimi piani degni di un documentario della National Geographic (e di certo ancor più efficaci per gli spettatori che assisteranno alle proiezioni in 3D), e a un team di effetti speciali che interviene nelle scene più tecnicamente difficili. Fa inoltre piacere ritrovare James Horner alle musiche, già in passato complice di Annaud, il cui contributo è come sempre imprescindibile.
cast:
Feng Shaofeng, Shawn Dou, Ankhnyam Ragchaa, Basen Zhabu, Yin Zhusheng
regia:
Jean-Jacques Annaud
titolo originale:
Wolf Totem
distribuzione:
Notorious Pictures
durata:
121'
produzione:
China Film Group Corporation
sceneggiatura:
Jean-Jacques Annaud, Alain Godard, John Collee, Lu Wei
fotografia:
Jean-Marie Dreujou
scenografie:
Quan Rongzhe
montaggio:
Reynald Bertrand
costumi:
Ma Yingbo
musiche:
James Horner
Il giovane studente di Pechino Chen Zhen viene inviato a vivere per due anni fra i pastori nomadi della Mongolia. Imparerà una cultura molto diversa da quella promulgata dal partito e soprattutto si interesserà al destino dei lupi, gli dei della steppa