L'ottava edizione del Festival di Roma si apre con una certezza: la commedia all'Italiana, quella dei Monicelli, dei Risi e degli Scola, è ancora un punto di riferimento, alla faccia di chi pensava che fosse ora di giubilarla. Ad affermarlo nella conferenza stampa e, sopratutto, sullo schermo è addirittura Giovanni Veronesi, regista che ultimamente si era distinto più per meriti di merchandising che di ispirazione artistica, realizzando la trilogia dei "Manuali d'amore". A far scoccare la scintilla del cambiamento ci ha pensato il destino, materializzatosi attraverso l'esperienza umana ed esistenziale di Ernesto Fioretti, un autista di produzione romano che ha fornito al regista toscano il materiale per rivisitare da una prospettiva per lui inedita un pezzo recente di storia d'Italia.
Infatti, se in precedenza i racconti del regista toscano erano stati popolati da personaggi appartenenti a ceto medio e alto borghese che a qualche grado concorrevano a costruire il mondo che il regista metteva sotto la lente d'ingrandimento, con Ernesto l'ago della bilancia, e quindi il punto di vista, si fa più laterale, abbracciando i valori e soprattutto il vissuto di un eroe popolare, di quelli che piacevano al neorealismo per la dignità e la forza con cui si opponevano alle sorti di un destino avverso. Con loro Ernesto condivide la statura morale e un'ingenuità che dovrebbero appartenere alla normalità delle cose, e che invece, a partire da metà degli anni 70 e ancora ai nostri giorni, costituiscono una specie di chimera, talmente radicata è la mentalità di potercela fare ricorrendo quasi esclusivamente al clientelismo e alla raccomandazione.
Ne sa qualcosa Giacinto, l'amico del cuore di Ernesto che, tra alti e bassi, attraversa la vita del protagonista cavalcando l'onda di un trasformismo che lo vedrà abbracciare gli ideali e soprattutto il tornaconto di partiti e movimenti politici: quello socialista dei seguaci di Bettino Craxi, in voga negli anni 80, cui il film dedica una parte consistente attraverso la losca figura dell'onorevole Fabrizio Del Monte interpretata da un mellifluo Sergio Rubini, per il quale Ernesto, coinvolto dall'amico, si trova a lavorare; e poi, in una sorta di contrappasso rispetto al tempo presente, il nascente movimento di Forza Italia, con il sorriso di Berlusconi a tappezzare le strade d'Italia, e Giacinto, di nuovo sulla breccia con il "nuovo" che avanza, intento a lodarne lo spirito innovativo in una delle scene più significative del film, quella in cui presiedendo una riunione di famiglia individua nel proselitismo di ragazze giovani e belle una delle ragioni di quel successo.
Seguendo le traiettorie dei modelli di riferimento e utilizzando le caratteristiche di un genere che più facilmente ibrida tutti gli altri, Veronesi mette a sistema una coralità di registri che, pur mantenendo inalterato il proprio marchio di fabbrica, gli permette la flessibilità necessaria ad accompagnare Ernesto durante i momenti più difficili, in un'alternanza di stati d'animo che passeranno dall'eccitazione più sfrenata, quella che gli consente di trovare il coraggio di licenziarsi da un lavoro sicuro ma poco amato approfittando della carica scaturita dalla vittoria dei mondiali di calcio spagnoli; oppure di ricreare la dolce intimità che segna il rapporto con la moglie Angela, la compagna di una vita che gli permetterà di restare con i piedi per terra, facendogli scansare di volta in volta le delusione e le lusinghe della mondanità rampante che in qualche modo non mancherà di frequentare.
Se il buongiorno si vede dal mattino, "L'ultima ruota del carro" rappresenta sicuramente un passo in avanti rispetto alle ultime uscite di Giovanni Veronesi. A dirlo è l'essenza stessa del film, poggiato su una struttura narrativa che, sconfessando il cliché del regista toscano, riesce a cambiare passo, abbandonando frammentazione episodica e gusto aneddotico, per confluire su scelte che si confrontano con coralità ed escursioni temporali che sono quelle del romanzo popolare e del grande affresco d'epoca. In questo senso si potrebbe dire che le semplificazioni cui Veronesi ci sottopone quando passa in rassegna quasi quarant'anni della nostra vita, lungi dall'essere un difetto attribuibile alle caratteristiche di una confezione fatta apposta per un pubblico nazional-popolare, altro non sono che l'unico linguaggio cinematografico possibile per restare attaccati in maniera coerente a un personaggio abituato a subire gli accadimenti della vita.
Indicativo, a tal proposito, è il passaggio dedicato alla scoperta del cadavere di Aldo Moro, in cui la scomparsa dello statista democristiano è letta senza rimandi ai significati politici e sociali che segnarono quell'avvenimento, ma sottolineandone al contrario le ricadute sulle possibilità lavorative di Ernesto e di suo padre, rimasti bloccati dal caos cittadino e rammaricati per aver perso una giornata di stipendio. Detto questo rimane il dubbio di una certa accondiscendenza nei riguardi di un pubblico abituato a non ragionare troppo sulle cose, e che quindi si accontenta di caratterizzazioni certamente simpatiche ma prive di quelle sfaccettature e anche di quella cattiveria necessarie a farle rimanere nella memoria. E se l'Ernesto di Elio Germano è un po' troppo sopra le righe e l'Angela di Alessandra Mastronardi quasi impalpabile, a colpire sono i personaggi e le caratterizzazione di secondo piano, fra cui vogliamo citare il pittore avanguardista che diventa amico di Ernesto, in cui Alessandro Haber riesce a trovare per una volta il contenitore adatto a dare sfogo alla sua debordante esuberanza.
09/11/2013