Conquistarsi una misera oretta per ascoltare un disco in santa pace può diventare un affare parecchio complicato, anche il sabato. Lo impara a proprie spese Michel Leproux, dentista parigino, patito del jazz ed egoista cronico che, preso dall'euforia per l'inaspettato acquisto in un mercatino di un album rarissimo e da anni sospirato - "Me, Myself and I", esordio del fantomatico clarinettista Neil Youart -, si affretta a rincasare per goderselo in solitudine dall'impianto stereo del salotto. Non ha però fatto i conti col resto del mondo. Ad attenderlo tra le mura domestiche ci sono, in ordine sparso: una moglie depressa e ansiosa di confessare un vecchio tradimento, un figlio scioperato che, con la scusa della filantropia, gli rinfaccia l'individualismo "capitalistico" e gli introduce in casa tre generazioni di filippini, un'amante nevrotica che smania, anche lei, per rivelare l'adulterio alla legittima consorte, una domestica col raffreddore che non ne vuol sapere né di soffiarsi il naso né di spegnere l'aspirapolvere, un imbranato idraulico polacco che in realtà è portoghese e l'inquilino del piano di sotto (polacco di origini) che invece è un inguaribile ficcanaso, nonché cocciuto e infaticabile organizzatore della "Giornata del vicino".
È quasi ammirevole l'ortodossia di "Une heure de tranquillité", commedia da camera dall'equivoco a catena con la quale Patrice Leconte dichiara di voler tornare alle origini della propria carriera, quando faceva cinema semplicemente per far divertire il pubblico. Niente di meglio, allora, della trasposizione sul grande schermo dell'omonima piéce teatrale di Florian Zeller che, con una formula narrativa tanto canonica da sembrare quasi fuori dal tempo, inanella piccoli e grandi intrighi familiari, menzogne, malintesi, rivelazioni e colpi di scena per, al solito,
castigare ridendo mores. Questa allegra e garbata pochade, attenta a schierare le più classiche maschere comiche per mettere alla berlina debolezze, vizi e nevrosi della
bourgeoisie senza compiere
carneficine polanskiane, non può che far perno su una solida artiglieria di interpreti, capitanata dal valente Christian Clavier (che in realtà sostituisce un asso come Fabrice Luchini, originale interprete sul palcoscenico) nel ruolo del misantropo, sventurato protagonista.
Eppure, quantomeno nella versione cinematografica, "Tutti pazzi in casa mia" manca proprio del brio, dell'arguzia e dell'esuberanza che dovrebbero essergli naturali e sembra quasi nascondere, con l'alibi della riduzione in compendio di tutti i meccanismi di genere, una complessiva carenza di forza e di originalità, nonché una certa inerzia nella scrittura che degenera troppo spesso nella piana elencazione di luoghi comuni sotto le spoglie del topos con tanto di coda moraleggiante. Non mancano certo momenti più godibili e spassosi - su tutti i botta e risposta tra Clavier e Stéphane De Groodt nei panni del vicino impiccione e logorroico - eppure si sente la mancanza di un disegno fluido e accattivante che leghi insieme i diversi quadri, scandendone il ritmo senza che il meccanismo riveli la propria intrinseca ripetitività. Ancor più forte si avverte l'assenza di uno sguardo registico perspicace e incalzante, capace di cogliere e quindi tradurre in immagini la
vis comica dell'intreccio, nonché di amalgamare i singoli momenti in un'escalation risolutiva anche attraverso le giuste trovate visive. Al contrario, in questo caso la mano registica di Leconte - autore dal registro personale e dalla poetica spiccata che in altre occasioni ha avuto modo di provare una significativa padronanza del mezzo cinematografico soprattutto sul piano estetico-formale - si mostra incerta, tremolante, impersonale e riduce la pellicola a una pigra traduzione del testo teatrale di provenienza, senza aggiungervi (o sottrarvi) null'altro. Al pubblico non resta allora che il futile, inconsistente diletto di uno svago salottiero neanche troppo divertente, la magra conquista di "un'ora di tranquillità" che scorre rapida e scivola via senza lasciar traccia.
29/10/2015