Incantati dall'esoftalmo di Marty Feldman a volte scordiamo che "Frankenstein Junior" è pure girato bene. Stessa dimenticanza potrebbe avvenire con "Tusk", oggetto horror non identificato che alcune affinità con il film di Mel Brooks le ha, Mary Shelley e mostri gotici in testa. Cambiano le formule (aderenza alle matrici cinematografiche per l'omaggio di Brooks; ripiegamento trash per Kevin Smith) ma le icone sono quelle: la magione spettrale isolata, il mad doctor, la creatura. Certo, cambiano anche le premesse, per motivi cronologici. Protagonisti di "Tusk" sono due podcaster statunitensi di successo, uno dei quali, Wallace, sconfina in Canada per intervistare un tizio che si è filmato mentre si amputava per sbaglio una gamba, pubblicando poi il video su Youtube. Problema: il tizio è morto. Wallace non vuole tornare a casa con niente in mano, perciò risponde all'annuncio di un anziano marinaio che abita in una villa sperduta fra i boschi e millanta un'autobiografia pazzesca da raccontare.
Le icone sono quelle però l'operazione di Smith mira a svelare i trucchi, privilegiando una fotografia luminosa e attuando infrazioni narrative talmente eccedenti la caricatura da assumere una particolare forma di credibilità. Se il precedente "Red State" trattava una vicenda plausibile in modo poco plausibile, in "Tusk" storia e discorso lavorano al contrario e in conflitto, addossati alla figura cardine del film: il tricheco. Howard Howe, l'anziano ospite di Wallace, ne è ossessionato tanto da aver elevato a ragione di vita la creazione di un ibrido uomo-tricheco, impresa in cui si cimenta da tempo grazie alla quale si è guadagnato il titolo di primo serial killer canadese. Wallace è la cavia definitiva, già cova in sé il tricheco nella fonetica dei nomi inglesi. Su di lui si concentra "Tusk" e la regia di Smith ne fa un individuo mutato - ancora prima dell'operazione chirurgica taglia e cuci che lo trasforma in schifosissimo obbrobrio mugghiante di carne e zanne - tramite incursioni in flashback dentro una privacy vissuta vanitosamente.
Forte di un'estetica weird che non teme di risultare artigianale, l'atmosfera del film appare malsana proprio grazie al fatto che a una faccenda sulla carta degna di produzione Troma mancano invece sdrammatizzazioni, tolti onnipresenti giochi di parole più squallidi che divertenti; o meglio, queste sono affidate ai personaggi nell'impassibilità della messa in quadro. Fino al palesarsi di Guy Lapointe, assurdo detective québécois interpretato da Depp sulla scia di Sellers, venuto a imporre intermezzi comici in montaggio alternato per accompagnare il patetico finale tutto lacrime, pesce e sentimentalismo ipocrita. L'asimmetria climatica forma-contenuto allunga il giusto distacco stilistico in assenza del quale "Tusk" meriterebbe la targa di scult, mentre così gli è concesso mantenere una sospensione fra demenzialità e disturbo, uno strano stato d'equilibrio classicista che richiama Stuart Gordon e che può confondere, in termini di aspettative formali disattese.
Riguardo al contenuto, forse senza accorgersene Smith lo calibra tematicamente sul senso di colpa, motore/movente dell'azione. Non per hybris Howe vuole generare la sua creatura bensì per sanare un vecchio torto perpetrato e avere la chance di essere punito; Wallace, sequestrato da Howe, nel chiedere aiuto via smartphone alla fidanzata coniuga dichiarazioni d'amore e d'infedeltà; la fidanzata di Wallace gli è infedele a sua volta e continua ad amarlo in forma mostruosa come mezzo di espiazione, continuando parimenti a piantargli le corna. Referenze intellettuali, morali, affettive sono avulse dagli esseri umani egoriferiti e meschini che popolano "Tusk", il che al massimo lo rende un film cattivo, non un cattivo film. La scelta di non nascondere nell'ombra o nel fuori campo il costumone prostetico da uomo-tricheco porta a una visione disagevole, come se ostentare la finzione implicasse l'emergere di una qualche intimità intuitiva; i lineamenti di Wallace affondati nel lattice, fra cicatrici e lingue strappate, compongono il volto di una delle più angoscianti, orride mutazioni corporee del cinema recente. O chissà, magari si esagera. In fondo è in discussione un'opera che presta voce a dilemmi filosofici del calibro di: "È l'uomo, invero, un tricheco nell'anima?". Tuttavia qui c'è in ballo non soltanto il body horror, non soltanto la commedia, non soltanto il mélo. Non soltanto il cinema, di genere o degenere. Kevin Smith sa che il ridicolo è ovunque e che ogni tanto è meglio prenderlo sul serio anziché prenderlo in giro.
cast:
Justin Long, Michael Parks, Haley Joel Osment, Genesis Rodriguez, Johnny Depp
regia:
Kevin Smith
distribuzione:
Sony Pictures Home Entertainment
durata:
102'
produzione:
Demarest Films, SModcast Pictures
sceneggiatura:
Kevin Smith
fotografia:
James Laxton
scenografie:
John D. Kretschmer
montaggio:
Kevin Smith
costumi:
Maya Lieberman
musiche:
Cristopher Drake