C'è una scena, in "Turner", in cui il padre del pittore chiede a un interlocutore se riesce a scorgere l'elefante nel dipinto in cui il figlio ha ritratto la tempesta che coglie Annibale sulle Alpi. Ma la sagoma dell'elefante è troppo piccola, e il padre di Turner la addita compiaciuto. Mike Leigh chiede al suo spettatore la medesima attenzione al dettaglio rivelatore. Nel suo lavoro precedente, il bellissimo "Another Year", il fulcro della storia verteva apparentemente sulla coppia di protagonisti, gli apparentemente amabili Tom e Gerri, così come in "Turner" il pittore è, naturalmente, al centro dell'attenzione. Ma Leigh ama celare in un personaggio secondario una specie di segreto, il solo a svelare pienamente il significato dei suoi film. In "Another Year" era Mary, l'amica di ceto inferiore, prima amata e poi respinta (salvo subdola pacificazione). In "Turner" analoga funzione è affidata alla domestica del pittore. Affetta da una forma sempre più cruenta di psoriasi, la domestica non profferisce quasi parola per tutto il film. E' una figura estremamente umile, remissiva. Leigh si sofferma sul suo sguardo in significativi primi piani: mentre Turner parla col padre, o con i mercanti d'arte, o con i colleghi dell'accademia reale. Non sappiamo quanto comprenda, dell'arte del suo padrone, ma di sicuro gli è incondizionatamente affezionata. Turner, invece, in una scena, la usa per sfogare una frustrazione sessuale, e non sembra mai curarsi troppo di lei.
Sia chiaro: "Turner" non è una biografia al negativo, in cui il protagonista viene posto in cattiva luce; non lo è neanche al livello più sottile, quasi subliminale, cui lavora Leigh. Non sfuggirà comunque come Turner sia descritto in tutte le sue componenti più terragne: Leigh lo mostra nella sua umanità materiale e brutale, resa eccezionalmente da Timothy Spall, premiato per la miglior interpretazione a Cannes 2014. La sua eccentricità - esaltata a confronto degli ambienti paludati dell'accademia (dove Turner si fa irriverenti beffe del collega Constable) - è descritta da Leigh in ogni aspetto della vita quotidiana, dagli atteggiamenti goffi, quasi animaleschi, al modo di approcciare le donne. Turner è separato da una donna che lo detesta, madre delle sue due figlie a cui non appare affezionato. Quando una di esse muore, nemmeno si reca alle esequie.
D'altra parte, alla brutalità si accompagna in Turner una nobiltà d'animo insospettabile. Non tanto nella schietta galanteria con la quale si dichiara alla vedova che ne diverrà compagna, paragonandola ad Afrodite, quanto in momenti come quello in cui chiede, a una ragazza al clavicembalo, di suonare Purcell, e la accompagna cantando, con un tono cavernoso che pare Tom Waits. Ecco: quel canto è una grande intuizione di Leigh, che unisce in unico gesto le due anime opposte di Turner. Una grandezza di spirito che non potrebbe esser tale se priva della sua terrena carnalità.
Si potrebbe pensare che Leigh stia proponendo l'ennesimo ritratto di un artista tutto genio e sregolatezza, che sfugge a ogni canone, un po' come l'Amadeus di Forman, ma non è questo a interessare Leigh. Non gli interessa nemmeno, come a Martone nel suo Leopardi, parlarci della presunta modernità di un artista dell'800. Leigh asciuga il biopic in costume di qualsiasi elemento celebrativo. Il suo racconto, aneddotico, procede per ellissi, si immerge in un'altra epoca al punto da stordire, rasentando un'austerità che ricorda quasi il cinema di Albert Serra. Con la solita messa in scena, formalmente convenzionale e di grande raffinatezza, Leigh non ostenta con particolari scelte di regia la sua autorialità (non l'ha mai fatto). Il suo tocco va cercato nelle soluzioni drammaturgiche.
A Leigh interessa l'uomo, con i suoi limiti e i suoi difetti, in rapporto a chi gli sta intorno. Ora, l'incapacità di Turner di ritrarre soggetti umani è indizio della sua difficile riducibilità al consesso sociale, delle sue fughe solitarie e della sua difficoltà ad amare nonostante non sia mai solo, né privo di affetto. Un doloroso e tormentato stare al mondo: che si traduce nell'orribile grugnito di fronte alla prostituta che cerca di ritrarre, o nell'impeto quasi disperato col quale scende in strada a piedi nudi, malato, per cercare di ritrarre il cadavere di un'annegata. Senza riuscirvi.
Turner è pittore della luce. Considerato precursore degli impressionisti, il suo percorso verso la rarefazione della forma lo porta quasi alle soglie dell'arte informale del XX secolo. La straordinaria fotografia del film, curata da Dick Pope, restituisce magnificamente la gamma cromatica del giallo, prevalente nei suoi dipinti. La tecnica di Turner, che univa originalmente olio e acquarello (e saliva, come si vede nel film), era volta alla cattura della luce, dell'aria, dell'atmosfera. Pittore di tempeste e naufragi: un aneddoto messo in scena nel film racconta che arrivò a farsi legare in cima all'albero di una nave durante una tempesta per poter fare esperienza dell'inermità di fronte alla furia degli elementi. Arte e vita votate a una natura selvaggia, non distruttiva ma vitale. "Dio è il sole", dice un attimo prima di spegnersi: ed è chiaro che non si riferisce al dio cui si starebbe approssimando (poco prima, aveva rabbrividito di terrore: "Sto per trasformarmi in un non essere"), ma piuttosto al sole che non vedrà più. La luce del sole era il suo dio: il buio della morte è la fine della luce.
Osservando la "valorosa Téméraire" condotta in porto al tramonto per essere distrutta, prima di dipingerla sente dire che sta assistendo al passato che tramonta. Obietta: "No, al futuro". Protagonista del dipinto potrebbe essere, piuttosto che l'antico veliero, il nero rimorchiatore, con il suo vapore, segno dell'imminente rivoluzione industriale. Il futuro è anche nella fotografia: il dagherrotipo in bianco e nero, privo di luce, da cui Turner è attratto e confuso. Turner non assisterà al futuro. Tramontato il sole per sempre, dopo la morte il futuro non lo vedremo.
Leigh ha ritratto un uomo che cercava l'assoluto nella luce e nella natura indomabile, solitario per vocazione. Un ritratto che non sarebbe completo - e torniamo così dove avevamo iniziato - se privo del fondamentale contrappunto fornito dallo sguardo vigile, anche se apparentemente inconsapevole e ottuso, dell'umile serva. E' lei che, sul finale, lo cerca amorevolmente, e arriva quasi sulla soglia della casa della compagna dove è agonizzante. Accortasi solo allora che vive con un'altra donna, torna malinconicamente sui suoi passi. Leigh nobilita straordinariamente questa figura: a lei, non per nulla, dedica l'ultima inquadratura. Come a Mary in "Another Year". In fondo, a Leigh sono sempre stati maggiormente a cuore i più umili. E forse è in lei che occorre scorgere la protagonista nascosta di "Turner", l'elefante africano travolto dalla tempesta di neve, senza il quale non sospetteresti l'esercito di Annibale.
cast:
Timothy Spall, Dorothy Atkinson, Marion Bailey, Paul Jesson, Martin Savage, Lesley Manville
regia:
Mike Leigh
titolo originale:
Mr. Turner
distribuzione:
Bim
durata:
150'
produzione:
Film4, Focus Features International, Lipsync Productions, Thin Man Films, Xofa Productions
sceneggiatura:
Mike Leigh
fotografia:
Dick Pope
scenografie:
Suzie Davies
montaggio:
Jon Gregory
costumi:
Jacqueline Durran
musiche:
Gary Yershon
1825-1851: gli ultimi 25 anni nella vita di William Turner, pittore di chiara fama, che vive a Londra con suo padre e la sua devota governante. Frequenta l'aristocrazia ed espone all'accademia; trae la sua ispirazione dai suoi frequenti viaggi. Alla morte del padre, Turner rimane profondamente segnato, al punto da iniziare a isolarsi in se stesso e ad adottare abitudini man mano più eccentriche. La sua vita ha una nuova svolta quando incontra Booth, una vedova che gestisce una pensione sul mare.