Una macchina che viene inghiottita dal buio. Le luci dei fari che rimpiccioliscono sempre di più fino a scomparire nel nero di un campo lunghissimo. Poi, in lontananza, il rumore secco di una frenata, un incidente. Questo il bellissimo, folgorante incipit de "Le tre scimmie", settimo film del regista turco Bilge Ceylan, vincitore del Premio per la Miglior Regia all'ultimo Festival di Cannes.
Senza dubbio un ottimo biglietto da visita. Peccato però che, a conti fatti, sia solo quella unica scena a rimanere impressa dopo la visione del film, che ha il demerito di affogare tutto poi in una sequela interminabile di scene dalla lentezza estenuante, faticosa, irritante già dopo il primo quarto d'ora.
Si arriva al paradosso che persino l'uso del piano sequenza, spesso e volentieri sinonimo di creatività, di innovazione, di "rottura", diventa l'emblema della pochezza di idee che sembra pervadere l'anima del film: come se basti piazzare là la macchina da presa per lasciare che esso vada avanti da solo.
Questo accade anche e soprattutto perché ad essere deboluccia è la storia: non tanto per lo snodo iniziale (l'incidente e la soluzione dello scambio di persona politico-autista) quanto per la sua prosecuzione. La moglie dell'autista (la comunque brava Hatice Aslan, bellezza consumata) che incappa in una masochistica quanto improbabile storia d'amore proprio col politico in questione.
Il figlio disadattato che scopre la tresca, sfoga la sua rabbia schiaffeggiando la madre ma tace di fronte al padre, in prigione. Al momento del rilascio di quest'ultimo le tensioni nate e cresciute con l'accumularsi di segreti, verità nascoste e realtà volutamente ignorate (da qui il riferimento alle "tre scimmie" del titolo che non parlano, non sentono e non vedono) saranno fatte irrimediabilmente deflagrare, fino ad un finale che, a mò di racconto morale, "torna" esplicitamente al punto di partenza (con la metafora della pioggia).
I personaggi, poi, appaiono ancor più vuoti del film: la madre, per esempio, fin troppo arrendevole e pronta a farsi urlare in faccia da chiunque; o il politico, talmente inetto e inconsistente da rendere non solo non credibile, ma persino ridicola la scena del litigio con l'amante, esempio perfetto di come confrontare la bellezza della forma (lo scenario mozzafiato di una scogliera sotto un cielo burrascoso), con la sciatteria del contenuto (un dialogo imbarazzante).
A proposito di forma, la fotografia "sporca" e i colori virati "a seppia" non sono male, ma alla lunga confermano comunque l'idea che si tratti di un manierismo abbastanza inutile.
Un consiglio: recuperatevi "Uzak", film migliore del regista e lasciate perdere questa ennesima dimostrazione di chi, come Ceylan, crede che bastino ancora i silenzi, le pause prolungate, le battute date con quel secondo in più di ritardo o lo sguardo della macchina da presa buona solo a soffermarsi troppo sui corpi plastici degli attori per fare cinema "d'autore".
E per favore, lasciamo stare Antonioni.
20/09/2008