Mentre in Europa gli affronti sadici e malsani della
nouvelle horror (da "
A l'interieur" a "
Martyrs") hanno risvegliato un'aleggiante aura di maledettismo francofono (il cui involontario contributo sociolinguistico è stato il proliferare dell'abusata espressione "pornografia della violenza"), contribuendo al rifiorire di una sensazione - quella dell'orrore - che ormai sembrava estinta dagli schermi (se non grazie agli ultimi, strenui baluardi innalzati dai maestri Romero e Carpenter, e alle brillanti intuizioni di Craven), nelle case di produzione d'Oltreoceano si preferisce curare il proprio monotono orticello, ignorando ciò che avviene al di là dello steccato e poco importa che l'erba del vicino sia più verde.
In questo senso "The Possession" conferma (ove ve ne fosse bisogno) e amplifica la crisi di un sistema produttivo subissato da un proliferare indolente di remake, reboot, sequel e votato al riciclo spudorato dei classici del genere, puntualmente spogliati dell'aura precorritrice e rivoluzionaria che ne aveva sancito il successo e degradati al ruolo di modelli industriali.
Nel nuovo prodotto seriale della Lionsgate (ma tra i produttori si stende, inatteso, anche il nome di
Sam Raimi) la confezione svela l'artificio sin dai titoli di testa, millantando la consueta parentela con fatti realmente accaduti - e visto quanti ne accadono varrà la pena controllare che il vicino di casa non necessiti di un esorcista - ma, se non altro, ha il pregio di proporre un riuscito incipit
in medias res, in cui la regia di Bornedal esplora il labile confine tra orrore e ironia, stilizzando l'angoscia claustrofobica che satura gli interni con l'efficace contrappunto di un sarcastico commento musicale. Per il resto si procede sugli usuali binari del genere e il film ci racconta il trauma di una fanciulla, ossessionata da una misteriosa scatola acquistata ad un mercatino dell'usato; naturalmente all'interno si nasconde uno spirito malvagio, che non tarderà ad impossessarsi del suo corpo, dando forma ad un profluvio di occhi biancastri e piroettanti, sguardi sbarrati, voci cavernose e fili di bava, che replicano pedissequamente i più triti cliché dell'horror demoniaco.
L'unica discrepanza rispetto al consueto folclore risiede nel fatto che l'ospite indesiderato non è propriamente il demonio, ma un "dybbuk", spirito maligno della tradizione ebraica (già intravisto nell'enigmatico incipit del coeniano "
A Serious Man"), molto più educato, va detto, del suo stretto parente che agitava il corpo della povera Regan McNeil nel cult di Friedkin. Bandite oscenità e turpiloquio, il parassita di Bornedal si insinua tangibilmente nella carne, nelle viscere della piccola Emily, al punto da venir fotografato durante l'immancabile risonanza magnetica. E proprio in questa volontà di esibire, di ostentare ciò che ne "L'esorcista" rimaneva orrore suggerito, pura atmosfera ammorbante si scopre la debolezza di una sceneggiatura lacunosa e sfilacciata, persino contraddittoria nel momento in cui si impone di rivelare, seppure nei contorni incerti di una visione intermittente, le fattezze di uno spirito incorporeo per definizione.
Il disfacimento della carne, la sensazione di logorio e putrescenza, che Friedkin aveva saputo ben rappresentare, connotando una realtà inquinata e malsana, in cui si leggono i segni di un crollo imminente, i prodromi di un'inevitabile rovina, svaniscono nella messinscena di Bornedal, che, pur corretto nel congelare le atmosfere con una luminosità fredda ed ospedaliera, rivelando un gusto desueto e raffinato per gli spazi e la fotografia, si mostra incapace di proseguire il discorso sul corpo dei suoi protagonisti, limitandosi all'impiego improvviso di effettacci poco ispirati (la mano che spunta dalla gola).
E', invece, nella grammatica del film che lo sguardo del regista si impone con maggior decisione, nei raccordi del montaggio, violenti e subitanei, negli stacchi sul nero totale, come impietose catarsi al parossismo di violenza, nelle sonorità primitive e stordenti di un accordo ostinato, ribattuto. Ma non basta per riscattare le inefficienze di una scrittura frivola e dispersiva, che si limita ad ammassare senza criterio i cliché più risaputi, fuggendo qualsiasi verosimiglianza in dialoghi che sfiorano (e spesso, a onor del vero, oltrepassano) il ridicolo involontario.
Forse i patiti del genere apprezzeranno l'aggiunta di questo ulteriore (inutile) tassello al variegato mosaico degli horror demoniaci, ma tutti gli altri avranno ragione a chiedersi cosa sia destinato a rimanere di un filone che muore lentamente divorando se stesso senza pietà film dopo film.
E a chi fosse tentato di andare al cinema perché "tanto è Halloween e un horror ci vuole", consiglio piuttosto una classica maratona casalinga: Carpenter e Romero se siete nostalgici, altrimenti il Rob Zombie de "
La casa del diavolo" rimane sempre un'ottima scelta.
29/10/2012