recensione di Giulio Sangiorgio
6.5/10
Piccole mani squarciano la carta da parati, ne svelano una ulteriore, al di sotto, di rosso bruciante: sui titoli di testa Bayona addensa graficamente il tema focale di "El orfanado," la presenza di un oltre, al di là della superficie delle cose. Un oltre invisibile, storie di fantasmi spagnoli. Un oltre celato, soffocato nel passato, caduto nell'oblio. Un oltre rimosso, poi rinvenuto: Bayona conosce il cinema horror, sviscera con consapevolezza il Perturbante di Freud, risale alle radici più profonde dell'angoscia, mentre porta in superficie i meccanismi del genere con controllata consapevolezza, sciogliendo nella classicità dell'impianto il gioco metariflessivo, l'enunciazione completa degli archetipi.
Un catalogo puntuale di temi e situazioni del perturbare: c'è quindi l'
unheimlich che si ritrasfigura in
heimlich, il familiare - eradicato, cancellato, trasformato in non familiare - che riaffiora (e riaffiora nella struttura stessa del film: il finale, d'altronde, mostra ciò che spettatore e protagonista hanno rimosso durante lo scorrere degli eventi); c'è [...]il dubbio che un oggetto privo di vita non sia per caso animato" [...], dubbio non solo ancorato, com'è ovvio che sia, alla dimensione dell'oltremondo, ma anche all'ambiguità che connota il ricorrere dell'oggetto maschera, staticità inanimata che annulla la vitalità dei volti; c'è la figura del doppio, quel [...] "sosia che da assicurazione di sopravvivenza diventa un perturbante presentimento di morte" [...] al quale i bambini-fantasma vogliono ridurre Simon, ambendo a plasmarlo in copia del rimosso Tomas; c'è una struttura che si fonda sulla circolarità e che, finemente elaborata su eco e rimandi, produce un angosciante senso di ripetizione, associato dallo psicanalista austriaco a un'infantile e apparentemente superata coazione a ripetere; c'è la previsione della morte, addensata nel male incurabile di Simon e più volte ribadita; ci sono situazioni in cui regna il terrore, scaturito dal timore di un ulteriore soggiorno intrauterino, dell'essere sepolto vivo (e c'è l'ambiente della casa stregata, sepolcro architettonico dal quale la protagonista non può e poi non vuole fuggire); e c'è ovviamente, primariamente, la paura dei morti e del loro ritorno.
I luoghi comuni psicanalitici dell'orrore trovano i propri correlativi in un'antologia fluida di
topoi cinematografici, elencati con capacità di creare sufficienti scarti dal trito e con senso di misura infecondo a esibiti metadiscorsi, nonostante si evidenzino le influenze dell'Amenabar di "The others" (la protagonista è la Belén Rueda di "
Mare dentro") e del produttore Del Toro (su tutti, naturalmente, "La spina del diavolo" e "Il labirinto del fauno", dai quali mutua l'ambiguo e commuovente carattere affettivo del finale). Privo di increspature e così d'ambizioni, se non quelle di insinuare angoscia e tensione nello spettatore. Che oggi preferisca a tale composta professionalità il furore che cola insieme al sangue nell'horror francese o, per restare nel territorio, le sublimi sciocchezze dello Yuzna iberico, è un ineludibile dato di fatto che non influisce sul giudizio finale.
(In collaborazione con
Gli Spietati)
18/10/2008