La "canzone della talpa" che dà il titolo internazionale all'ennesima fatica di Miike Takashi si sente dopo un'introduzione in cui ci viene presentato l'agente protagonista. Reiji è un poliziotto che sta per essere licenziato ma, nonostante la disonorevole condotta, si mostra retto e incorrotto, un puro di cuore che attende addirittura il vero amore per fare sesso per la prima volta. Per queste ragioni il suo superiore gli promette una promozione: lo licenzierà ufficialmente per farlo diventare un agente sotto copertura. Reiji dovrà sgominare dall'interno il clan di Shuho Todoroki, missione finora non riuscita ad alcuno. Il capitano testa la fedeltà e le capacità del giovane poliziotto tramite una messinscena in due atti nella quale Reiji crederà di essere stato infiltrato, quando invece sta solo facendo la conoscenza dei suoi superiori del Dipartimento Antidroga (gli unici a al corrente della sua missione): il superamento dell'esame sarà ratificato dal brano mono-verso "The Mole Song". Questa lunga parte introduttiva è un esame sull'intelligenza (scarsa) di Reiji che si ribalterà nel corso del film, come in un
mise en abyme sulle attese degli spettatori, con le quali il maestro giapponese continua a giocare.
"The Mole Song: Undercover Agent Reiji" appartiene alla categoria dei film miikiani più marcatamente demenziali, basati sulla stretta dialettica tra comicità e azione (vi ricordate di "
Zebraman"?), dove ogni sketch si costruisce a partire dall'ipercinetismo delle buffe maschere protagoniste del racconto. Il regista ha espresso più volte nel corso della sua carriera la sua passione per l'arte del manga e anche quest'opera è tratta da una serie creata dal celebre Noboru Takahashi; chi si stupisce oggi per l'innegabile abilità con la quale Miike tratta la materia fumettistica di partenza, si è forse perso gli ultimi vent'anni di cinema durante i quali il regista nipponico ha dato forma a un universo parallelo in cui la fisicità dei personaggi e le coordinate delle scene sono plasmabili come i tratti di china di una vignetta. "The Mole Song" non possiede i caratteri delle vette dell'arte miikiana, presentandosi piuttosto come un divertito esercizio di stile, un'inarrestabile sequela di invenzioni visive che reggono un impianto narrativo surreale e sopra le righe dove - come al solito - può accadere qualsiasi cosa, eventi assolutamente coerenti al mondo costruito dal film.
Siamo sulla scia dei lavori dallo stile più eterogeneo e più sperimentali nelle contaminazioni, quali erano "The Happiness of Katakuris" o il più recente "
For Love's Sake"; ma non è il semplice frullato
avant-pop a far strabuzzare gli occhi, bensì la quantità di idee gettate in scena da Miike: i gratuiti momenti musicali, il flashback di Reiji che focalizza l'attenzione su un collega, mostrando le altre reclute con le faccine monoespressive degli omini simil-Lego, le sequenze d'animazione a passo uno col faccione degli attori sovrapposto ai corpi, le leggere atmosfere da
pinku eiga, le improvvise accelerazioni
action. Di volta in volta, Miike cambia pelle e come un camaleonte modula la direzione della sua macchina da presa, tra il montaggio di primi piani nei passaggi canterini, la frenetica macchina a mano degli scontri corpo a corpo e i dolly nelle sequenze più compassate (il rito di iniziazione, la disposizione degli uomini durante la retata). La fotografia di Nobuyasu Kita acceca gli occhi con tamarre luci al neon e una gran varietà di toni e colori, soprattutto con viraggi in rosso e in giallo. Da mettere in evidenza le fantasie dei completi di Crazy Papillon che, con il suo amore per le farfalle coniugato alla sua forza fisica, diviene un altro personaggio da catalogare in una possibile antologia miikiana (altra zampata del regista, l'ammiccamento
gay friendly nel suo rapporto con l'uomo leopardato).
E non fatevi abbindolare dai sermoni anti-droga proferiti dai superiori di Reiji, ripetuti troppe volte per non apparire come una sottile satira alla retorica istituzionale, in linea con un prodotto che non prendendosi sul serio sbertuccia anche la presunta solennità dello spettatore. Serio o faceto che sia, il cinema di Miike è sempre un'esperienza tonificante nella sua imprevedibile esplosione di forme e colori. Finale spumeggiante ma più convenzionale che ci lascia con l'ipotesi di un sequel.
18/11/2013