In una sequenza di "The Mist", il protagonista Pete Drayton promette al figlio un fumetto per tranquillizzarlo. Poco dopo vediamo Drayton mettersi in tasca una copia di "Hellboy" di Mike Mignola. Non è un riferimento messo lì a casaccio. Perché le spaventose, tentacolari, creature dalle fattezze
lovecraftiane che popolano "The Mist" sembrano uscire proprio dalle pagine del fumetto di Mignola, o dalle immagini del film di Guillermo Del Toro (e se alla fine del primo episodio delle avventure del demone rosso il nostro eroe non fosse riuscito a ricacciare quei demoni nella spaventosa dimensione da cui provenivano?).
"The Mist", ultimo film del sottovalutato Frank Darabont, ancora una volta tratto da un racconto di Stephen King, sta proprio lì, a metà tra fumetto, celluloide, letteratura, cultura pop. La partenza è in puro stile horror anni 70, memore del cinema di Romero e Carpenter: un gruppo di persone asserragliato in un supermercato, spaventato da una minaccia esterna. I risvolti, però, sono diversi. Darabont tenta di realizzare una versione moderna e aggiornata alle paure contemporanee (americane) della sci-fi anni 50, in cui il vero "nemico" era il cosiddetto "Pericolo rosso", il comunismo (una pellicola come "The Mist" non sarebbe sfigurata nella programmazione del cinema "Majestic", dall'omonimo film di Darabont del 2002). Così colora il suo film di esplicite connotazioni politiche e metaforiche. Il gruppo di persone rifugiate all'interno del supermarket deve sì fronteggiare i mostri all'esterno, ma anche un pericolo ben più insidioso, meno appariscente: il fanatismo religioso dei sopravvissuti.
I veri mostri sono tra di noi, quindi. Il regista de "Il miglio verde" non dice nulla di nuovo, ma lo fa bene, in modo corretto. È uno dei pochi a prendersi il lusso di correre dei rischi, anche a discapito della benevolenza del pubblico (dopo il flop in patria, "The Mist" arriva da noi con oltre un anno di ritardo): dilata i tempi, si prende lo spazio necessario per delineare le psicologie dei suoi personaggi (non sono molti gli horror il cui minutaggio si avvicina ai 130 minuti), e dimostra di essere, assieme (forse) a Rob Reiner, il regista che più ha compreso a fondo l'universo di Stephen King (a partire dal tema dell'irrazionale che irrompe con violenza nella realtà). Il divertimento non è goliardico come in tanto cinema di genere visto di recente. L'horror ben presto lascia campo libero a riflessioni non banali sulla religione e la fede (il film di Darabont presenta più di una parentela con il meno riuscito "The Happening" di Shyamalan), sulla natura umana (con Toby Jones-Ollie che afferma cinico: "la specie umana è fondamentalmente folle. Mettete due uomini in una stanza e inizieranno subito a trovare un motivo per uccidersi a vicenda. Perché avremmo inventato politica e religione sennò?"), sul caso (il finale beffardo).
Darabont fa montare la tensione lentamente, mostra le creature il meno possibile (forse anche a causa del
budget "povero"? meglio così) e poi si concede momenti di genuino terrore, quasi splatter (come quello nella farmacia, che rubacchia un po' da "Aliens" di Cameron). Prima di un finale apocalittico e raggelante, sulle note di "The Host of Seraphim" dei
Dead Can Dance, che oltre a distanziarsi dalla fonte letteraria, è anche un bello schiaffo in faccia a tutto ciò a cui Hollywood ci ha abituato negli ultimi anni.
Un gioiellino da non lasciarsi sfuggire.