Jonas Akerlund si era fatto strada nel mondo del cinema con l'allegra prepotenza dell'irriverente e anticonvenzionale "Spun". Un filmetto per certi versi freddo, asettico, esageratamente esibizionista, che attingeva a piene mani alla grammatica
videoclippara, con la quale il giovane svedese aveva a lungo lavorato.
Ma "Spun" era comunque un'opera sincera, dettata dal desiderio di costruire e assemblare del buon cinema, e di raccontare una storia magari veicolata da una struttura ingenua, ma sicuramente vera.
Esattamente il contrario del suo secondo film, "The Horsemen", pellicola in arrivo sugli schermi italiani a febbraio 2009, ma che sembra realizzata e confezionata in un'altra epoca.
Un film sciatto, che prova a conciliare una sfrenata ambizione a livello delle situazioni che scaturiscono dalla sceneggiatura con una pochezza di mezzi che lo fa risultare datato anche solo nella cura fotografica con la quale viene realizzato.
Lo
one-man-show Dennis Quaid è il centro di quello che si potrebbe definire come un thriller dai risvolti mistico-horrorifici. Agente (dell'Fbi?) in una New York laterale e periferica, si divide tra il lavoro e i due figli, che trascura dalla morte per malattia della moglie.
Il nuovo caso che gli si pone davanti esaspera questa situazione. Un gruppo di assassini seriali si muove apparentemente senza senso. In realtà rivelano un'attinenza con i versi dell'Apocalisse quando, all'inizio del capitolo sesto, narra dell'irrompere sulla "quarta parte della terra" dei quattro cavalieri: Fame, Pestilenza, Guerra e Morte.
La cervelloticità e l'efferatezza degli omicidi commessi, risucchiano l'agente nell'indagine a tempo pieno, facendogli trascurare sempre di più i propri figli...
Per rendere il film piacevole e pregnante non è sufficiente il solo Quaid, tra l'altro gestito male, e il film non arriva mai a riempirsi di sostanza, peccando, ancor prima che come organizzazione dell'immagine, in fase di scrittura. Le stesse motivazioni addotte per sciogliere un nodo narrativo vengono sconfessate qualche sequenza dopo, quando non sono più funzionali al prosieguo della vicenda di morte e terrore che si dipana sotto gli occhi dello spettatore.
Il film si perde così in astrusi tentativi di offrire una spiegazione logica e consequenziale a qualunque sfumatura del male, tentando di sviscerarne il senso e il movente, ma finendo così per esorcizzarlo e privarlo di quella carica immaginifica che la pellicola contiene in nuce.
Le comparsate di Peter Stormare e la parte di spalla destinata a Ziyi Zhang non sono di certo sufficienti a creare valore aggiunto.
Imboccata questa spirale senza uscita, il film implode su sè stesso in breve tempo, destinato a perdersi senza traccia nella tortuosa stratificazione del cinema di genere.
31/01/2009