Per la seconda volta nel giro di pochi mesi assistiamo all'inaspettata collaborazione tra due massimi esponenti della cinematografia e della letteratura mondiale. Se in "
The Canyons" il regista Paul Schrader aveva trovato nella penna di Bret Easton Ellis un degno contraltare alle sue ossessioni, ora è il turno di Ridley Scott, che porta sul grande schermo una sceneggiatura originale del premio Pulitzer Cormac McCarthy. In entrambe le occasioni il risultato è controverso, divide, non lascia impassibili. Non è un caso che entrambe le pellicole parlino dell'Apocalisse che ci ha travolti, della fine di un'epoca e di un mondo, di Hollywood innanzitutto. "The Canyons" lo faceva attraverso lo stile narrativo e i personaggi decadenti e sfatti tipici di Ellis, "The Counselor - Il Procuratore" è invece in tutto e per tutto figlio dell'anti-epica nichilista (e anti-capitalista) dell'autore di "
Non è un paese per vecchi" e "Meridiano di sangue".
Ridley Scott, ammirevolmente, si rimette in gioco, allentando il suo stile iperbolico e patinato a favore di una messa in scena rigorosissima, lontana dai canoni del cinema spettacolare a cui ci hanno abituato gli Usa negli ultimi anni (basti fare un confronto con "
Le belve" di Oliver Stone, pellicola rapportabile a "The Counselor" per molti dei temi trattati, ma girata con tutta la maniera e lo stile esagitato del regista di "Platoon", e a conti fatti molto più
divertissment e innocua dell'operazione di Scott). Partendo dalle basi di un
neo-noir come tanti altri (in Messico, un avvocato di successo decide di sporcarsi le mani e fare un po di soldi "facili" immischiandosi in un traffico di stupefacenti) McCarthy e Scott mescolano diabolicamente le carte in gioco, creando personaggi tanto ambigui quanto indimenticabili, spiazzando con improvvisi lampi di violenza (pochi i momenti in cui scorre il sangue, ma la secchezza e la brutalità con cui sono orchestrati gli omicidi lascia il segno) e inaspettati, deliranti, tocchi di erotismo (a partire dalla sequenza - già
cult - di Cameron Diaz che fa sesso con una Ferrari sotto gli occhi sbigottiti di Javier Bardem). Ma a spiazzare, considerando che ci troviamo all'interno di un "prodotto"
mainstream, è soprattutto il senso di fatalità e pessimismo che permea l'intera pellicola, come se si trattasse di una lunga sinfonia di morte, una tragedia dei nostri tempi, in cui alla fine non si salva nessuna persona e nessun ideale. Un regista come Ridley Scott, legato in
primis alla potenza e alla ricerca sull'immagine, celebre per il suo talento visivo, per la prima volta nella sua lunga carriera (a settantasei anni!) decide di abbandonarsi completamente al fascino della parola, e riprende senza tirarsi indietro lunghe, ipnotiche, sequenze di dialogo, sospese tra il cinismo e la poesia per cui è rinomato McCarthy (da antologia molte battute messe in bocca al personaggio del cowboy solitario interpretato da Brad Pitt, e struggenti gli scambi tra il protagonista Fassbender e il trafficante di diamanti Bruno Ganz all'inizio, o il disincantato avvocato della malavita nel pre-finale), per raccontarci di una realtà dove le regole sono già state scritte, in cui l'umanità, spesso avida, non può che subire passivamente le conseguenze delle proprie azioni.
Per Cormac McCarthy e Ridley Scott siamo tutti prede o predatori, senza sfumature di grigio, e nella vicenda il predatore più "famelico" e letale è senza dubbio quello interpretato da Cameron Diaz, splendida
femme fatale, inarrestabile nel suo cammino di morte verso il successo e l'ambizione. Il film di Scott difetta dell'ironia grottesca che permeava un capolavoro come "
Non è un paese per vecchi" dei
fratelli Coen, ma fa suo un lacerante e definitivo senso di disperazione e straniamento più in linea con le pagine di McCarthy (in parte dovuto anche al suicidio del fratello più giovane di Scott, Tony, che ha scosso duramente il regista nel corso delle riprese del film): e probabilmente proprio per queste ragioni in patria (e altrove) è stato rifiutato dal pubblico e unanimamente massacrato dalla critica.
A conti fatti tra le opere più coraggiose, amabilmente sbilenche e riuscite del regista inglese.