Tutto girato nella penombra di un tribunale, fra luci soffuse e dialoghi sferzanti in pieno stile teatrale, ecco "The Conspirator", la nuova fatica registica di Robert Redford. L'idolo democratico per antonomasia, la stella hollywoodiana che con la sua chioma bionda e i suoi occhi chiari è stato per decenni un sex symbol con tutti i crismi del suo ruolo, quando si è seduto dietro la macchina da presa non ha mai combinato un granché. Al suo ottavo lavoro, Redford ci è arrivato, nonostante i suoi 74 anni suonati, con uno stile e un'impronta ancora impalpabili, acerbe, indefinibili. A cavallo tra un manicheismo fin troppo didascalico, quanto a temi trattati, e una scelta fin troppo classicista, ai limiti del puro esercizio di bella grafia, quanto invece a stile formale, il cinema dell'autore di Santa Monica trova forse in questa sua ultima pellicola il punto di equilibrio migliore.
Si tratta, innanzi tutto, di un argomento assolutamente inedito: il processo che seguì all'attentato omicida al presidente Abramo Lincoln. Fu processato un gruppo di "cospiratori" sudisti, all'indomani della conclusione della guerra civile. E fra di loro, finì alla sbarra anche una donna, Mary Surratt, proprietaria dell'alloggio dove si riuniva il gruppo di attentatori per pianificare l'assalto presidenziale. Il film si snoda lungo le udienze di questo soffertissimo processo, dove la donna che si professa innocente deve affidarsi alla difesa di un ex eroe nordista, ora avvocato, che assume la causa convinto della colpevolezza della sua assistita e terminerà il suo lavoro di tutt'altro avviso. L'elaborazione intellettuale del protagonista, interpretato dal bravissimo James McAvoy, è l'essenza del film.
E sta proprio in questo il principale merito di Redford, nel saper porre, sommessamente, anche allo spettatore, un quesito di fondo di una civiltà neonata: in situazioni di emergenza, si può derogare allo Stato di diritto? In ossequio a una politica concreta e pragmatica si può rinunciare alla Verità? E quali sono i limiti che una corte giudiziaria deve porsi nel giudicare? Valgono solo principi di colpevolezza provati in via giudiziaria o entrano in scena considerazioni di ragion di Stato?
Questa volta Redford punta in alto. Pur non rinunciando al suo essere partigiano, schierato, politicamente esposto, quasi commuove, stavolta, il tentativo che mette in scena di esporre quanto più lucidamente possibile una serie di dubbi etici e civili. Lo aiuta in questo una sceneggiatura effettivamente serrata e ben scritta, per mano dell'abilissimo James Solomon. Ma per la verità, lo aiutano anche scelte registiche non certo di secondo piano, quali puntare fortemente sull'essenza del dialogo "teatrale" tra i personaggi (ma i due protagonisti, oltre a McAvoy anche Robin Wright, sono davvero impeccabili), ma anche eliminare quella patina da cartolina d'altri tempi che affliggeva i suoi lavori precedenti, personalizzando molto l'aspetto visivo del film con illuminazioni da candele, penombre, luci soffuse.
Se la conclusione della vicenda vi soddisferà o meno, non spetta a noi dirlo. Ciò che, però, registriamo con piacere è che per una volta anche il regista-divo decide di non arrogarsi questa competenza, decide viceversa di rispettare maggiormente il suo spettatore-ascoltatore e di limitarsi a fornirgli dei mezzi critici sufficienti per poter formulare un giudizio al termine della storia. Una scelta di campo, che se per Redford non sarà forse una rivoluzione, è comunque una decisione meritevole del giusto riconoscimento.
cast:
James McAvoy, Robin Wright, Kevin Kline, Evan Rachel Wood, Justin Long
regia:
Robert Redford
distribuzione:
01 Distribution
durata:
123'
produzione:
The American Film Company, Wildwood Enterprises
sceneggiatura:
James D. Solomon
fotografia:
Newton Thomas Sigel
scenografie:
Kalina Ivanov
montaggio:
Craig McKay
costumi:
Louise Frogley
musiche:
Mark Isham