Alcune puntualizzazioni prima di cominciare. La prima è di carattere storico e serve a ribadire quanto sia stato importante nell'ambito dell'affermazione del cinema afroamericano la necessità di coesione e di pace sociale scaturita all'indomani dell'11 settembre, quando per far fronte all'attacco del nemico esterno si senti la necessità di ricompattare l'intero ecumene. Gli Oscar 2002 di Halle Berry e Denzel Washington, arrivati 35 anni dopo quello vinto da Sidney Poitier ("Indovina chi viene a cena?") sembrò la conseguenza più evidente di quella decisione. Una strategia ribadita sul piano politico, e con ancora più enfasi dall'elezione di Barak Obama, il primo presidente di colore della storia americana. La seconda invece, squisitamente cinematografica, riguarda la costanza con cui negli ultimi tempi la filmografia statunitense sia tornata a riflettere sul tema della segregazione razziale con opere del calibro di "Diango Unchained" e di "12 Years a Slave" che nel tempismo della proposta sembrano sottolineare come il problema in questione sia ancora lungi dall'essere risolto. A margine di questo e poi chiudiamo, stride l'assenza di Spike Lee, regista che più altri si è battuto per ricordare misfatti passati e presenti perpetrati a discapito della sua comunità, proposta con un'iconografia aggressiva e autoritaria che si oppone ai bamboozled disegnati a uso e consumo di una visione reazionaria e razzista ancora in auge fino a metà del secolo scorso.
Sarà bene ricordarlo perché "The Butler" mette al centro della sua storia - peraltro ispirata a un articolo di giornale che riprendeva la vicenda di Eugene Allen, maggiordomo alla Casa Bianca per oltre trent'anni - un personaggio che in qualche modo sembra riportare indietro le lancette del progresso, annullando di colpo i risultati ottenuti attraverso decenni di scontri e di proteste, con un atteggiamento conciliante e remissivo nei confronti di quel potere bianco che era stato la causa di tali sofferenze. Cecil Gaines (pseudonimo dietro il quale si nasconde la figura di Allen) è infatti il prototipo dell'uomo che è riuscito a cambiare il proprio destino sottomettendosi alle regole dell'America bigotta e razzista degli anni 20. Partito da una piantagione di cotone ha imparato a servire a tavola nelle case dei ricchi per arrivare alla White House, dove in qualità di maggiordomo ha visto alternarsi ben otto presidenti: da Eisenhower a Ronald Regan, passando per Jfk e Nixon, dei quali finì emotivamente per condividere fortune e rovesci. E questo rimanendo fedele all'idea di partenza, e guardando con diffidenza ogni tentativo di affermare il diritto all'uguaglianza ed alla parità di diritti sottoscritto dai vari Luther King e Malcon X, e dalle migliaia d'attivisti e di gente comune che negli anni solidarizzarono con i loro ideali.
"The Butler" sembra adeguarsi alla mentalità del suo protagonista, replicando tanto sul piano delle immagini che su quello dell'impianto narrativo la ripetitività del suo excursus esistenziale. In questa maniera se il personaggio di Cecil Gaines (un Forest Withaker visibilmente dimagrito) è un uomo che vive per interposta persona gli avvenimenti della Storia, percependo le scansioni temporali attraverso l'alternanza degli inquilini dello studio ovale, allo stesso modo lo spettatore si ritrova immerso nel suo refrain esistenziale mediante una serie di sequenze tutto dello stesso tenore. In ognuna di queste, dopo un breve cenno introduttivo che permette alle parti in causa di rompere il ghiaccio con scene interlocutorie, normalmente occupate dalla professionalità discreta ed efficente di Cecil, la narrazione lascia spazio alla caratterizzazione del presidente di turno, quasi sempre manifestata dalla sua risposta rispetto al problema razziale, e risolta con l'aneddotica generatasi nel corso del tempo a proposito del suo governo. Così Eisenhower è l'uomo che nel 1957 invia l'esercito federale nel sud del paese per consentire agli studenti di colore di entrare a scuola, John Fitzgerald Kennedy colui che con un discorso alla nazione chiede al senato di promulgare una legge per garantire l'esistenza di locali pubblici in grado di servire indistintamente ed alle stesse condizioni ogni cittadino americano, fino a Reagan, che nonostante il parere contrario del suo entourage minaccia nono di porre il veto a qualsiasi proposta di legge favorevole a sanzionare l'apartheid Sudafricano. Un principio che ritroviamo anche nella struttura binaria del racconto, costruito appunto su una dialettica tra pubblico (il lavoro alla Casa Bianca) e privato (la vita famigliare) e che nel fatto di escludere altre varianti, e di prevedere, almeno per quanto riguarda il protagonista, solo scene ambientate in interni - per non dire degli inserti riguardanti i fatti storici inseriti con immagini d'archivio e proposte attraverso l'escamotage delle news televisive - sembra ancora una volta confermare le coordinate di un'estetica che è il riflesso degli orizzonti di Cecil, pronto a rimuovere (dalla propria vista e da quella degli spettatori) qualsiasi cosa possa mettere a rischio il raggiunto status quo.
In quest'ottica i difetti di un film che per forza di cose è costretto a semplificare, offrendosi spesso a soluzioni che sfociano nel bozzetto e nell'aneddotica, risultano in qualche modo attenuati. E anche il confronto con il nuovo che avanza, portato avanti attraverso le discussioni e gli scontri tra Cecil ed il figlio maggiore,attivista militante, per quanto scontati nella sua meccanica drammaturgica, assumono una valenza di autentica semplicità che rende credibile la presa di coscienza finale del protagonista. Dopo il successo di "Precious" e il flop dell'interessante e sottovalutato "The Paperboy" Lee Daniels riesce a rimettersi in carreggiata sotto il profilo commerciale ritrovando quel riscontro di pubblico che potrebbe dargli la forza per riprendere in mano le fila di un cinema più provocante che "The Butler" per forza di cose non riesce ad avere.
02/01/2014