Quanto peso ha il politically correct nelle tanto decantate virtù di uguaglianza, inclusione e correttezza di una società come la nostra, che ha scelto di secolarizzare, senza risolverlo, il conflitto di classe? Sono davvero queste le qualità sociali, culturali e politiche che regolano i rapporti umani odierni? Oppure sono solo altri brand, buffe parole appiccicate dai sociologi della condivisione forzata sopra un discorso-barattolo vuoto di senso; e la verità è che invece viviamo dentro una società di singolarità in competizione, azzuffandoci ogni giorno con le clave dei nostri egoismi contrapposti?
"The Square" di Ruben Östlund, premiato con la Palma d'Oro quest'anno al festival di Cannes, suddivide il suo discorso in alcune scene memorabili con i tempi della commedia surreale, ma alla fine dei conti affronta gli spettatori - complice un'installazione mostrata a metà film - con una domanda molto precisa: avete fiducia negli altri?
Un tema già indagato dal regista svedese nel riuscito "
Forza maggiore", lì drammaticamente elaborato in forma di vissuto privato, e in "The Square" allargato invece a un
pamphlet satirico scagliato come un sasso dentro lo stagno perbenista di un mondo, il nostro, dove accade persino che uno dei suoi migliori esempi (o forse dovremmo dire prodotti?), cioè Christian (l'ottimo Claes Bang), l'affabile, prestante e istruito curatore del museo di arte contemporanea di Stoccolma, venga derubato di smartphone e portafogli mentre cerca di evitare una lite tra una coppia, vittima di un "trucco" che accade probabilmente tutti i giorni in qualunque città europea, in un'epoca in cui anche il classico furto con destrezza è stato globalizzato.
Interdetto di fronte alle nefaste conseguenze del suo altruismo, Christian elabora uno stratagemma pari e contrario per riprendersi il maltolto, che lo porta ad accusare direttamente del furto un'intera classe sociale - immigrati, disoccupati, piccoli delinquenti - rappresentata da un palazzo dormitorio dove dovrebbe trovarsi la refurtiva e abitare, quindi, i presunti ladri.
L'escamotage funzionerà alla grande, anzi, funzionerà persino troppo: terrà Christian talmente occupato da fargli perdere di vista il surreale lancio pubblicitario della nuova installazione del museo, The Square appunto, un quadrato di luci di quattro metri per quattro, all'interno del quale tutti noi cittadini saremo finalmente liberi dalla paura, di nuovo fiduciosi gli uni degli altri; un'opera reale, per così dire, che lo stesso Östlund aveva installato nel 2014 nella cittadina di Värnamo.
Ma a chi, dunque, e a quali emozioni parla questo quadrato magico, e con esso, l'arte contemporanea tutta? Alzi la mano chi non ha mai provato un po' di smarrimento di fronte agli oggetti artistici della cosiddetta modernità, che a prima vista sembrano aver ben poco a che fare con i concetti classici di bellezza, di irriproducibilità dell'opera, di maestria realizzativa. A che cosa puntano, infatti, dei mucchietti di pietre con la scritta al neon You have nothing, una delle opere esposte nel museo curato da Christian? Dovremmo abbozzare consenso, sconcerto, indifferenza, compiacimento - sempre in maniera politicamente corretta, beninteso - e scattare addirittura una foto ricordo ai sassetti? In un certo senso sì, perché siamo forse di fronte all'espressione più aderente alla nostra società democratica, distruttrice del concetto di unicità, che ha sottratto al manufatto artistico la sua concezione elitaria; un'operazione, però, che ha reso necessario lo svuotamento di senso dell'oggetto stesso. Esattamente ciò che spiega Christian alla giornalista Anne (Elisabeth Moss) durante un'intervista: anche la sua borsetta potrebbe diventare arte, se esposta all'interno del museo; è più importante, dunque il luogo, il nome, il contesto - in una parola, la trovata - che ruotano intorno al prodotto, che il prodotto stesso. Vi ricorda qualcosa?
Già, la pubblicità. L'alternativa propone di abbandonare questo atto di fiducia e dare dell'idiota all'artista, come accade al povero Julian (Dominic West di "
The Wire") e a chi permette l'esposizione di scempi simili; dovremmo cioè saltare fuori dal quadrato, lontani da ogni discorso sociale sensato (come accade nel film a un uomo affetto da disturbi mentali), etichettare l'arte contemporanea come degenerata e diventare cioè estremi, asociali, antidemocratici: è quello che i media odierni hanno ribattezzato con il nome di deriva populista. Ma attenzione, perché persino la cosiddetta arte contemporanea potrebbe diventare in ogni momento reazionaria e impazzire, come il
performer-scimpanzé (magistralmente interpretato dal coreografo Terry Notary del "
Pianeta delle Scimmie"), che infatti "esce dal quadro" e giustamente aggredisce i commensali a una cena di gala del museo.
A ben vedere, dunque, "The Square" è un film politico, perché ci svela che viviamo in una società paradossale che ha imparato a declinare persino il paradosso, proprio come fa un'altra delle narrazioni sociali a cui siamo abituati, la tolleranza, che si batte anche per permettere la presenza degli stessi intolleranti. Ma è, forse, l'unica maniera che la nostra società conosce per continuare a conservarsi, e la libertà d'espressione, artistica e non, persino quella becera e smaccatamente sensazionalistica, per riprodursi all'infinito senza trovare ostacoli.
07/11/2017