Hey you, out there in the cold
Getting lonely, getting old
Cinefilia e Allenismi
Firmando il decimo lungometraggio di finzione, Noah Baumbach riprende le fila di quel discorso cine-biografico iniziato ne "Il calamaro e la balena", quarto film che lo consacrò tra i talenti del cinema indipendente americano. Conclusa l'introduzione della galleria di personaggi che popoleranno "The Meyerowitz Stories (New and Selected)" appare inevitabile l'associare i nomi di questa nuova famiglia ai Berkman conosciuti nel 2005: così il patriarca Harold Meyerowitz è un invecchiato Bernard di cui ha ereditato la barba ma non il mestiere (è uno scultore, non uno scrittore); i figli Danny e Matthew rassomigliano a Walt e a Frank, rispecchiando il rapporto di amore/odio sviluppato nei confronti della figura paterna. Non bisogna comunque considerarlo un seguito quanto, bensì, una contaminazione tra reminiscenze personali e quello che è l'universo narrativo codificato dall'autore in oltre un decennio.
Attraverso il divorzio dei genitori, "Il calamaro e la balena" analizzava la crisi su due livelli: quello del nucleo familiare, rilevando nervosismi e nevrosi scavanti solchi profondi tra genitori e figli, determinandone dinamiche e disfunzioni; e quello di una classe sociale, la borghesia intellettuale newyorkese, destinata a naufragare nella dissipazione di un talento o nell'incapacità di leggere una realtà irrimediabilmente mutata. "The Meyerowitz Stories" pur avendo come sfondo la medesima tipologia familiare non riprende tali tracciati tematici poiché già ampiamente definiti; tutto ciò è già accaduto in quel segreto passato che ha portato i personaggi a essere come li vediamo nel film: ossia un artista egomaniaco, un padre (Adam Sandler) che non ha mai lavorato in vita sua e ha concentrato tutte le sue energie su una figlia (Grace Van Patten) che è ora una matricola al college, il fratellastro (Ben Stiller) di questi che vive a Los Angeles e ha acquisito il pieno successo economico, una sorella (Elizabeth Marvel), figura inafferrabile, che aleggia come un fantasma tra le vite di tutti.
Baumbach lavora come al solito su due direttrici di scrittura correlate tra loro: lo sviluppo dei personaggi e gli episodi che variano e si accumulano fino ad arrivare a un punto di saturazione - che inavvertitamente o volontariamente provocano una rottura, un incidente. Dei Meyerowitz Baumbach afferma, sin dal titolo, di voler raccontare una pluralità di storie, nuove e selezionate, novelle brevi introdotte da cartelli che presentano sia i nomi dei personaggi, sia le situazioni solitamente banali in cui li conosciamo. Ad esempio, all'inizio, "Danny Meyerowitz stava cercando di parcheggiare" o, dopo mezz'ora, "Matthew è appena arrivato con un volo notturno da Los Angeles". La cinefilia baumbachiana ripesca quella narrazione guidata dal caso che Alain Resnais aveva messo in scena nel doppio "Smoking/No Smoking", opera che seguiva e si esauriva nelle infinite possibilità create dalla variazione sul tema. "The Meyerowitz Stories" è dunque una variazione giocata su un doppio campo tematico: è l'ennesima incursione nell'universo delle relazioni umane di Baumbach e nell'universo codificato dalla commedia umana
alleniana, fatta di famiglie della borghesia intellettuale newyorkese, meglio se ebree. La sensibilità dell'autore è però assai personale e riesce a declinare vicende arcinote in un contesto impercettibilmente imprevedibile, causa le ormai sclerotizzate nevrosi dei vari personaggi. Se, infatti, ciò che accadeva ne "Il calamaro e la balena" era un processo
in fieri, le storie dei Meyerowitz hanno traiettorie psicologiche già cristallizzate, segnate dall'irreversibilità. È una commedia autunnale che si crogiola nei ricordi di bei tempi andati, probabilmente mai realmente esistiti.
Ritratto di famiglia con tempesta
Harold, interpretato con classe da Dustin Hoffman, è assertivo e salace, critico verso tutti tranne che verso se stesso, coccolato dal proprio enorme ego. Ha sbattuto la testa per colpa del cane Bruno, che l'ha trascinato inseguendo una lepre. "Dovresti vedere l'altro cane" sminuisce ironicamente di rimando al figlio Danny, il quale si mostra preoccupato. Baumabach è abile nello sfruttare gli spazi casalinghi nei quali ben si districa celando movimenti di macchina e tagli di montaggio che hanno qui spesso una spiccata funzione se non emotiva quanto meno volta all'assegnazione di un ruolo all'interno della rete relazionale. L'inquadratura che segue Harold uscire dalla cucina rivela la presenza della sorella: Jean è sempre stata lì ma appare solo quando è il movimento del padre a scoprirla; d'altra parte questo personaggio affascinante, incasinato ("fucked up") rimarrà un'incognita lungo tutta la narrazione. I figli cresciuti all'ombra di cotanto padre si riavvicinano per ragioni diverse: Danny si fa ospitare perché si sta separando e la figlia si trasferisce al college, Matthew vuole riuscire a vendere la casa di famiglia, Jean vuole essere presente, perché così si comporta una brava persona. Matthew è il figlio prediletto e, al contempo, il figliol prodigo che vive lontano lavorando come business manager: l'unico in famiglia che ha capito come fare soldi, dirà sferzante Harold. Danny potrebbe apparire l'ennesimo personaggio di Adam Sandler urlante e sommessamente infelice, con difficoltà nella gestione della rabbia: sarà il montaggio, allora, a operare un controllo affilato, staccando ogni qual volta lo sfogo montante sta per raggiungere il culmine, utilizzando una modalità anticlimatica messa a punto dal cinema recente coeniano (si pensi a "A Serious Man"). Ma Danny è ben più sfaccettato e Sandler gli dona una certa umanità ammaccata e claudicante: dotato di uno spiccato talento musicale, non è andato oltre a qualche canzone da poter strimpellare con la figlia. Ed è proprio a loro che la macchina da presa si avvicina, incorniciandoli in un piano medio per un duetto al pianoforte che scalda il cuore e la cui possibile stucchevolezza è stemperata dalla strampalata estemporaneità con cui si svolge.
I Meyerowitz tendono a fuggire sia il conflitto che se stessi, temendo di scoprire i loro punti deboli, i loro piccoli e grandi fallimenti. Quando Harold si sente a disagio alla mostra del vecchio amico L.J., esce dal MoMA e si mette a correre; auando Jean vede un anziano amico di famiglia che l'aveva molestata da ragazzina se la dà a gambe. In entrambi i casi c'è Danny a inseguire, il quale zoppica vistosamente, acciacco cronico da cui non si vuole liberare, somatizzazione simbolica della sua condizione di subalternità. Il suo rapporto con Matthew, oscurato del padre, costituisce il vero trait d'union dell'opera: se in una scena sono sodali nello smantellare l'auto del pederasta (anche se ora è un vecchio affetto da demenza senile), in un'altra di poco successiva si confrontano a viso aperto sul destino della casa familiare, sull'invenduta collezione paterna. L'elefante nella stanza è come sempre Harold, anche quando assente: è un genio non pienamente compreso dal suo tempo? O forse non era poi così bravo come millantava...
Baumbach trova anche un metodo per rendere tali conflitti cinematici, alternando campo/controcampo a movimenti di macchina in contropiede rispetto alla prossemica attoriale: ad esempio, quando Sandler si muove la macchina da presa lo segue in parallelo stando due passi indietro; il movimento che compie l'inquadratura è di discesa/salita fino a un centro fisso, ma i due interpreti non fanno altro che spingersi o spostarsi uscendo dall'inquadratura e costringendo, dunque, la mdp a riposizionarsi per ritrovare un baricentro.
L'ultimo pannello è dedicato alla nipote, Eliza, l'unica a non essere ancora vinta dai problemi familiari, a non fuggire davanti a nessuno, avendo, al contrario, un buon rapporto con tutti. Forse seguirà le artistiche orme del nonno: niente più scultura ma cinema, benché, come per il nonno, è difficile dire dove finisca il talento e dove inizi il cieco amore parentale. Dicono che sia geniale ma il sospetto che giri solo parodie softcore è più che lecito. Si ripromette di cercare un'opera del nonno dimenticata come fondo di chissà quale magazzino; quasi un segno di pace per acquietare idealmente, con un gesto di riappropriazione, gli incancellabili rancori familiari. In tal modo il cinema di Baumbach varia e si ripete rimanendo sempre lucido e vitale, corroborato da un'instancabile riflessione inter-generazionale. Non recide il cordone ombelicale né col passato né con la famiglia ma cerca un modo per affrancarsene guardando avanti - fosse anche prendendosi una vacanza lontano dal padre. È dunque un peccato che si stia ormai consolidando una vulgata critica che potrebbe sminuirne il talento relegandolo al ruolo di "erede di Woody Allen", eventuale funesto presagio dell'accusa di replicare "sempre lo stesso film".
19/10/2017