Ondacinema

recensione di Matteo Pernini
5.5/10

Una donna rientra in quello che supponiamo essere il suo appartamento. È, invece, dell’anziano padre, al quale rimprovera di aver fatto fuggire, accusandola del furto del suo orologio da polso, l’ennesima infermiera. Si consuma, tra i due, una modesta discussione, durante la quale lei gli annuncia che sta per lasciare Londra ed è, dunque, impellente prendere una decisione sul futuro del genitore, simbolicamente gravato dallo spettro di una casa di cura. Stacco: in poche inquadrature fisse la macchina da presa illustra gli interni del ricco appartamento, svuotati di ogni presenza umana. Un dettaglio ci porta in cucina, ove il padre si prepara una tazza di tè mentre danza cautamente su un’amata romanza di Georges Bizet. Un rumore, come di serratura, attira la sua attenzione e, recatosi in salotto, vi trova un uomo seduto con agio in poltrona, che dichiara, tra lo stupore nostro e dell’anziano, di essere suo genero e che quella è, in effetti, casa sua. È, questa, la prima di una lunga serie di fratture nella nostra comprensione degli eventi, che ci accompagneranno lungo i novantasei minuti di questo dramma da camera, messo in scena dall’esordiente Florian Zeller, che adatta (per la seconda volta, dopo il garbato, ma innocuo, "Florida" di Philippe Le Guay) la propria omonima pièce teatrale, dividendo la penna con l’amico Christopher Hampton.

L’esito è una immersione percettiva nella coscienza di uomo affetto da demenza, di cui, attraverso un montaggio che intreccia tempi e spazi e sovrappone indistintamente piano della realtà e piano dell’immaginazione, condividiamo l’atroce disorientamento che la malattia porta con sé, l’impressione di una realtà sgretolata e priva di appigli logici. Emerge, in ciò, la natura del film, che è un labirinto dilatato nello spazio – gli stessi androni introducono a locali diversi, una camera da letto si apre sul corridoio di un ospizio – e nel tempo – attraversando un uscio si cambia prospettiva temporale, la stessa scena è ripetuta due volte – e che percorriamo come fosse un’incisione di Escher, col timore di un assurdo sempre pronto a sorprenderci al termine di una scala. Non più garanzia di realtà, l’immagine è foriera di dubbi, incertezze, ipotesi sconclusionate: la fanciulla col volto di Imogen Poots, che ricorda all’anziano una figlia (forse) defunta, si è davvero brevemente occupata di lui? O la mente ha proiettato volti del suo passato su una figura immaginaria?
Inutile cercare un appiglio nelle parole della figlia, unico personaggio, a ben vedere, alla cui presenza siamo legittimati a credere, quando neppure riusciamo ad appurare se ella debba o meno trasferirsi a Parigi – dove neanche parlano inglese!, le ricorda desolato in letimotiv il genitore. Ogni affermazione ha il suo contrario in questo dramma che di tanto in tanto potrebbe ricordare una fantasia dell’assurdo (e tragic farce era, appunto la dicitura che sottotitolava l’opera nelle repliche losangeline), se non fosse improntato, come dichiarano a gran voce i campi fissi sugli interni borghesi e gli ingressi in ostinato dei violini di Ludovico Einaudi, a una austerità senza rimedio.

Sia detto senza riserve: "The Father" ha dalla sua un’idea forte, ottime interpretazioni e una discreta – sebbene convenzionale – drammaturgia. Se lo critichiamo non è per carenze nei singoli contributi, ma perché il cinema non è la semplice somma delle sue parti. In particolare, al termine del film, si riconosce una fragilità nell’architettura allestita da Zeller, il segno di un’opera che si risolve nel suo stesso meccanismo, reiterato ad libitum per inscenare un trasferimento sensoriale – assai efficace sulla breve distanza, ma debole una volta che se ne siano compresi gli ingranaggi – e da cui l’ultimo atto si smarca per non rischiare la colpa di lasciare lo spettatore in confusione oltre l’ultima inquadratura.
Quel che più insospettisce è quanto poco il film dichiari la sua natura teatrale, quasi il regista si fosse a priori imposto di fare del cinema, ossia di adattare il testo a un diverso linguaggio, anziché lasciare che vi aderisse liberamente. Si veda la cura con cui le fratture del reale, quei momenti in cui il montaggio interviene a scomporre il mondo del protagonista, siano preparati da un indugio della camera, in cui si manifesta la prevedibilità di uno schema. Forse col timore di chi, nuovo a un mezzo espressivo, tema di abusarne, Zeller sembra volerci spiegare che sta accadendo qualcosa, anziché lasciarlo semplicemente accadere, da cui la severità di una messa in scena tanto impegnata a evitare il rischio di artificiosità da irrigidirsi in un accademismo un po’ sterile.

Non è un caso che i momenti migliori del film siano quelli ove il gesto dell’attore è lasciato libero di mostrarsi e noi dimentichiamo, per un istante, la struttura a incastri che vorrebbe sostenere l’opera. Tra tutti, ne riferiamo due: il sorriso reciproco che padre e figlia si scambiano in ascensore e, ancor più, la scena del maglione. Di ritorno a casa, la figlia scorge il padre intento, come cercasse di risolvere un rompicapo, a infilarsi un maglione. Gli si avvicina, senza poter nascondere il dolore per quella vista, e, rimproverandolo affettuosamente, lo aiuta. Il breve scambio successivo – "Anne?", "Cosa?", "Grazie per tutto quello che fai" – e lo sguardo in risposta di Olivia Colman hanno la sincerità e la forza delle piccole cose vere.
C’è da rammaricarsi all’idea che il film non sia stato maggiormente consacrato alla maestria dei due interpreti, alla semplice messa in scena dei loro gesti quotidiani, anziché aderire a una drammaturgia che ripete, sostanzialmente invariate, le forme di un cinema da camera alto-borghese, in cui non manca nemmeno l’oggetto-simbolo – l’orologio continuamente dimenticato dal genitore – a significare, qualora ci fossimo distratti, che il tempo è per il protagonista una qualità ormai inafferrabile.

Quanto alla decostruzione dei parametri di orientamento del racconto, è bene aggiungere che essa si inserisce in una tendenza affatto estranea alle sperimentazioni di certo cinema da una ventina d’anni a questa parte. L’invenzione di Zeller è di indirizzare gli scompensi spazio-temporali prodotti dal montaggio verso quella che potremmo definire una cinematografia clinica, che restituisce la forma della malattia, precipitandoci nella percezione illogica di una mente alterata, ma nel far questo riduce il film a meccanismo, disturbando la stessa immedesimazione che intenderebbe favorire.


21/04/2021

Cast e credits

cast:
Anthony Hopkins, Olivia Colman, Imogen Poots, Mark Gatiss, Rufus Sewell, Olivia Williams


regia:
Florian Zeller


titolo originale:
The Father


distribuzione:
Bim Distribuzione


durata:
97'


produzione:
F comme Film, Trademark Films


sceneggiatura:
Florian Zeller


fotografia:
Beb Smithard


scenografie:
Peter Francis


montaggio:
Giorgos Lamprinos


costumi:
Anna Robbins


musiche:
Ludovico Einaudi


Trama
Ormai anziano, un uomo fino ad allora autosufficiente inizia a dubitare dei suoi cari, di ciò che vede e di quel che accade attorno a lui.