Un inedito duo registico costituito dall’israeliano Guy Nattiv e dall’iraniana Zahra Amir Ebrahimi (che veste anche i panni della coprotagonista Maryan) ha diretto il film "Tatami – Una donna in lotta per la libertà", presentato a Venezia 80. Si tratta di un thriller politico e un dramma sportivo al contempo, che intende porre l’accento sulle circostanze che possono trasformare una competizione internazionale in uno scontro ideologico che minaccia la libertà di chi gareggia. In tempi burrascosi forse non si ripete mai abbastanza che anticamente, quando la fiaccola olimpica era accesa, i conflitti tra le poleis greche venivano congelati per permettere agli atleti di competere liberamente. Viceversa, quando si pensa alle epoche moderne, ritornano alla mente i boicottaggi e i veti incrociati che in tante occasioni, olimpiche e non, hanno condizionato le gare.
Per quanto fatti e personaggi del film siano inventati, la narrazione è concepita in modo da suggerire una forte impressione di realtà, quasi a voler ricalcare un episodio realmente accaduto: un racconto pressochè privo di anacronie, fatta eccezione per tre brevi flashback; la presenza di uno speaker fuori campo che commenta le gare; la fotografia in bianco e nero piuttosto contrastata, ma soprattutto coerente con l’assunto dei registi. La vicenda si svolge a Tblisi, in Georgia, dove la judoka iraniana Leila Hosseini (Arienne Mandi) difende i colori del proprio paese. Dopo una serie di gare concluse vittoriosamente, dalla propria federazione le viene imposto di ritirarsi dalla competizione per non confrontarsi con la rivale israeliana, la quale proviene da un paese che l’Iran non riconosce ufficialmente. Quando la protagonista decide di andare avanti nonostante tutto, alla linea narrativa principale, che segue quanto accade nel palazzo dello sport della capitale georgiana, si aggiunge in montaggio parallelo quella incentrata sui familiari di Leila, che diventano loro malgrado lo strumento del ricatto nei confronti della giovane donna. La suspance del film è garantita dall’incalzante ma dosata tensione originata dal succedersi delle due linee del racconto. Per quanto riguarda i personaggi, l’allenatrice della protagonista, che funge da mentore, è il personaggio narratologicamente meno riuscito tra i due: da un iniziale appoggio alla sua atleta ne diviene prima oppositrice, in quanto sposa la linea della propria federazione cedendo al ricatto, poi aiutante, in quanto sprona Leila a proseguire nelle gare. Si tratta di una pecca di scrittura piuttosto evidente in un film che, per il resto, appare ben girato.
È soprattutto sul piano estetico che Tatami si fa apprezzare. Il formato 4:3, più vicino al quadrato, accentua nelle scene in interni il senso di soffocamento, di angustia fisica e spaziale, così come interiore dell’atleta. Il dedalico andirivieni da e per gli spogliatoi è per lo spettatore catabasi nell’animo della protagonista, seguita dalla macchina da presa ravvicinata e dinamica. Nei corridoi le atlete ci vengono incontro quasi a passo di marcia, concentrate, silenziose, economizzando nel miglior modo ogni istante per riscaldarsi prima della gara, e anche lo stile di regia asciutto, privo di fronzoli acuisce tale sensazione. Rinunciando ad esempio a inquadrare gli spettatori presenti nel palazzetto ci si allontana dalla spettacolarizzazione dell’evento sportivo per declinarlo invece nella sua dimensione privata, intima: il vero pubblico è costituito dai familiari di Leila che seguono alla televisione, tanto che le loro vite dipendono da ciò che accade nel corso delle gare.
L’aspetto più interessante di questo film è costituito dalla fotografia in bianco e nero. Nell’intento di fare delle vicende della protagonista un paradigma universale, svincolato dalla ristretta e asfittica contingenza storica, i registi rinunciano al colore, come a dire che ciò che va colto nel film non è la bandiera di appartenenza dell’atleta, bensì il portato umano di resilienza determinato dall’uso politico di un evento sportivo. La composizione luministica delle inquadrature e la distribuzione dell’ombra propria sul volto delle due donne nei primi piani accentua il pathos di alcune sequenze in direzione espressionistica e noir: le ombreggiature sembrano ad esempio scavare il volto dell’allenatrice. Maryan era infatti un’atleta promettente la cui carriera è stata stroncata per ragioni politiche. Altra soluzione cui il direttore della fotografia Todd Martin ricorre è quella della shilouette: non di rado i personaggi principali attraversano ambienti particolari e si trovano in controluce, per cui scorgiamo di esse solo un indistinto profilo nero. Orbene, la shilouette ha la caratteristica di spersonalizzare chi compare nell’inquadratura, di distaccarlo dal contesto, universalizzandone viceversa la dimensione emotiva grazie a quelle che Gilles Deleuze chiamava “immagini-affezione”. (Antonio Costa, Il richiamo dell'ombra, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino, 2020, pp.10, 11, 60 e 114) Anche il momento prettamente sportivo è girato in modo asciutto ed essenziale, lontano dagli eccessi di certa filmografia dello sport; l’unica concessione al virtuosismo è una fuggevole inquadratura che mostra le atlete dal basso mentre calcano il tatami. Se si dovesse indicare un aggettivo che definisca sinteticamente il film la scelta cadrebbe su intenso.
cast:
Ash Goldeh, Lir Katz, Nadine Marshall, Jaime Ray Newman, Arienne Mandi
regia:
Zar Amir Ebrahimi, Guy Nattiv
titolo originale:
Tatami
distribuzione:
Bim Distribuzione
durata:
105'
produzione:
Keshet Studios, New Native Pictures
sceneggiatura:
Elham Erfani, Guy Nattiv
fotografia:
Todd Martin
scenografie:
Sofia Kharebashvili, Tamar Guliashvili
montaggio:
Yuval Orr
costumi:
Sofia Iosebidze
musiche:
Dascha Dauenhauer