Esiste un luogo edenico? Un' isola rigogliosa ed accogliente nella quale cercare rifugio. La risposta è no. Il male ti raggiunge ovunque, parola di George Romero. Questo è il senso profondo di "Survival Of The Dead".
Il sesto capitolo della saga dei morti viventi è un western, o meglio mutua l'estetica western e la mescola con la consueta salsa
b-movie per costruire una feroce metafora della nostra società. Un'allegoria del nostro tempo dove il caravanserraglio di zombie sbudellatori rappresenta la massa di disperati, di senza terra, di coloro che fuggono dalla povertà e sfondano la porta del mondo del benessere. Per dirla in altre parole, un film politico sulla scia dei suoi predecessori che ormai dal 68, anno nel quale arriva sugli schermi "La notte dei morti viventi", hanno sempre avuto come sottotesto la tematica sociale. In questo nuovo capitolo, il regista di Pittsburgh filtra il suo pensiero attraverso il mito della frontiera, della eldorado dove è possibile costruire una nuova vita, della terra promessa. Questo è infatti l'orizzonte ideale di chi è rimasto ancora umano in un mondo dove i morti si sono risvegliati, l'unica fuga possibile per i pochi che sono rimasti "normali". Uomini che sognano un luogo puro, incontaminato, ma sono appunto dei sognatori e lungo il sentiero c'è sempre qualcuno pronto ad irretire un cercatore illuso. Così, per caso, attraverso internet, un commando di marines in libera uscita dall'esercito, viene a sapere di un capitano-marinaio che sarebbe disposto a condurli in questo luogo vergine. Peccato che le acque attorno all' isola pululino di cadaveri risvegliati. Stesso discorso per la spiaggia, con un'unica differenza che qui e nel resto del luogo i morti sono legati come animali da giardino. In un mondo folle, la nuova follia è quella di chi pensa che un giorno potrà educare i morti a vivere con gli umani. Lo sguardo di Romero si avvicina a questo microcosmo di valori country, imbevuto di religiosità quacchera e di quella ipocrisia da segno della croce dopo un omicidio, con distacco, quasi con rassegnazione. "Survival Of The Dead" è un horror, con sfumature da sfida infernale tra due famiglie che si odiano e sono portatrici di due distinte visioni su come affrontare il problema Teste morte, come vengono chiamati ora gli zombie. O'Flyn e Muldoon con i loro rispettivi capifamiglia si affrontano per imporre il proprio credo: il primo vuole sterminarli tutti, il secondo vorrebbe cercare di integrarli facendoli cibare di altro che non fosse carne umana. Romero rimane a debita distanza da tutti e due, convinto come è che la natura umana sia endemicamente tesa all' errore e al male. Lontano dalla prosopopea di un certo cinema classico che imponeva un manicheismo di facciata, qui non c'è nessun
Wyatt Earp o
Doc Holliday, anzi ogni personaggio ha il suo bel da fare con le proprie tonalità di grigio. La diffidenza nei confronti dell'uomo è la cinica presa d'atto che l'essere umano è dominato da violenza, arroganza e sopraffazione. Ne è una esemplificazione la voce off nel finale che sottolinea la pazzia della lotta tra le due fazioni. Echi antimilitaristi tipici della filmografia romeriana. Di contorno le masse di diseredati che attraversano la storia sbucando da sottoterra. Persi nel tempo senza un riferimento nel disperato tentativo di continuare ad esistere contro la civiltà violenta e prevaricatrice, i morti viventi di Romero sono il vento della storia, sono lo tsunami più volte respinto.
Sicuramente non è il miglior film del regista, ma è sempre un sollievo osservare come la sua visione abbia la capacità di aggiornarsi nel tempo e trovare lungo il suo percorso correlati formali per tradursi in film mai banali. Cosa non da poco di questi tempi.
19/10/2009