Se oggi si può parlare di matrimoni egualitari o anche soltanto di unioni civili, buona parte del merito spetta ai moti di Stonewall, riconosciuti unanimemente come il primo atto da parte della comunità omosessuale di rivendicare i propri diritti. Gli scontri avvennero a inizio estate 1969, nel noto quartiere newyorkese del Greenwich Village, in particolare in Christopher Street, poi divenuta centro del movimento gay negli anni settanta, e furono la risposta dei frequentatori dell'omonimo locale (gestito dalla malavita che lucrava sulle leggi restrittive in vigore) all'ennesimo raid perpetrato dalle forze dell'ordine. Ancora oggi i Gay Pride di tutto il mondo, fra le altre cose, celebrano quell'episodio. Vent'anni fa un piccolo film indipendente, diretto da Nigel Finch, si assunse l'onore (e l'onere) di raccontare un capitolo così fondamentale per la comunità gay. Ora è la volta di una produzione un po' più impegnativa. Sfortunatamente il risultato è lungi dall'essere un nuovo "Milk" e in effetti le accoglienze critiche sono state per lo più negative. Anche se il film è stato scelto per l'apertura del Festival del Cinema Gay di Torino, pure il mondo lgbt è stato piuttosto freddo nei confronti dell'opera, accusata di avere edulcorato e mistificato i fatti storici. E' vero che quando si sceglie di raccontare episodi così cruciali, accontentare tutti è piuttosto difficile, ma il regista Roland Emmerich e lo sceneggiatore Jon Robin Baitz si sono meritati ampiamente le critiche che hanno ricevuto per le loro discutibili scelte. Perché se da una parte la decisione di volere, col film, donare un volto e una storia ai partecipanti rimasti anonimi di quei giorni caldi può essere anche encomiabile, non si può relegare a poco più che figuranti attivisti come la trans Marsha Johnson o l'ex malavitoso Ed Murphy (per tacere di Sylvia Rivera che fu la prima a dare il via alla protesta e che nel film neanche appare), personaggi che meriterebbero una biopic, promuovendo invece figurine bidimensionali piuttosto banali come il protagonista e i suoi amici. Inoltre, come hanno segnalato praticamente tutti, se gli scontri videro al centro trans ispaniche e afroamericane, perché mettere al centro della storia un ragazzino wasp che nella finzione diventa addirittura colui che scaglia il primo mattone dando inizio alla rivolta? Nel film non mancano personaggi appartenenti alle varie minoranze etniche, ma sono relegate al secondo piano.
A dire il vero dal tedesco Roland Emmerich, regista (almeno in passato) di titoli fortunati come "Stargate", "Independence Day" o il "Godzilla" made in Usa anni novanta, fautore di un cinema che sembrava un'appropriata sintesi fra Joel Schumacher e Michal Bay, non sorprendono certe défaillance. Non basta evidentemente essere dichiaratamente omosessuali per raccontare certe storie, tanto più che nelle opere precedenti del regista i gay venivano spesso rappresentati in maniera discutibile. Inoltre la storia di Danny Winters (il Jeremy Irvine di "War Horse", che porta al personaggio il suo essere carino e poco altro), giovane dell'Indiana che arriva a New York ufficialmente per studiare alla Columbia e ufficiosamente perché il padre, coach della scuola, lo ha cacciato di casa dopo aver scoperto che se la faceva col quaterback (che, immancabilmente, per salvarsi la reputazione sostiene di essere stato ubriacato e sedotto), e nel Greenwich troverà una nuova casa, dei veri amici e un fidanzato attivista, ha le caratteristiche di un intrattenimento camp scipito che stona alquanto con la sua pretesa di raccontare una pagina tanto significativa della storia recente. Anche il precedente film di Emmerich, "Anonymous", sui misteri intorno alla paternità delle opere di Shakespeare, nonostante le cadute di stile e gli azzardi che solo a registi più robusti sarebbero potuti venire bene, diventa, paragonato a questo film, se non di tutto rispetto, almeno avvincente. Sorprende che ad un risultato così magro abbia contribuito lo sceneggiatore Jon Robin Baitz, autore candidato al Pulitzer, compagno per molti anni di un apprezzato regista e attore di Broadway come Joe Mantello e, soprattutto, creatore di una delle serie televisive più riuscite della tv americana degli anni duemila come "Brothers & Sisters", dove si partiva da situazioni risapute per dire qualcosa di nuovo sulla società americana, cosa che stavolta invece si è ben guardato dal fare.
Trovo che esageri chi dice che i film con al centro personaggi gay, tranne alcune eccezioni (recentemente "Carol" di Todd Haynes), non riescano più ad attirare le attenzioni del grande pubblico (e comunque, anche se non al centro, personaggi omosessuali sono presenti in tantissime opere sul grande come sul piccolo schermo), però indubbiamente anche pensando a questo "Stonewall" resta un'occasione sprecata.
08/05/2016