C'è una frase, alla fine di questo piccolo grande film, che riassume nella sua semplicità cosa vuol dire veramente essere bambini, pre-adolescenti, insomma avere undici anni. La piccola Stella, coricata a letto a fianco dell'amichetta Gladys, le confida il suo segreto più intimo, quello che non ha mai svelato a nessuno: "io ho paura del buio". E poco dopo aggiunge: "ho paura di tutto, sempre".
Suona proprio come una confessione, il rendersi conto per la prima volta di una fragilità interiore, di una piccola debolezza tipica di questa età, ma che fino a quel momento Stella non aveva ancora ammesso a sé stessa. L'aveva tenuta nascosta, forse proprio perché rendersi conto di ciò significava capire di essere ancora in quella sottilissima e complessa linea di mezzo tra l'infanzia e il mondo degli adulti.
Il bellissimo film di Sylvie Verheyde, acclamato alle Giornate degli Autori a Venezia e ora distribuito dalla Sacher di Moretti, va visto sostanzialmente sotto quest'ottica: il personaggio di Stella vive una contraddizione tanto semplice quanto difficile da gestire, oscillando continuamente fra due contesti di riferimento ai quali comunque appartiene e che nel bene o nel male segnano il suo percorso di crescita. Uno è quello della famiglia, caratterizzato in due modi: c'è il bar dei genitori, chiassoso caciarone e sboccato ma comunque vitale, allegro; c'è però anche il paese natale, quel "nord" francese già soggetto (in chiave parodica) per un altro recente film transalpino di successo, e che più di tutti contraddistingue il background culturale di Stella. Un luogo spoglio, povero, ventoso e privo di qualsiasi divertimento, dove quindi lo spirito di un bambino impara ben presto le asprezze della vita. È da lì che Stella ha assunto quello sguardo distaccato e disincantato che la rende così particolare, è da lì che nasce la sua convinzione di essere in qualche modo già "cresciuta".
E poi c'è il mondo della scuola. Se nel paese del padre viene vista male perché "parigina", quindi "troppo ricca", nella capitale e più precisamente all'interno delle quattro mura scolastiche il suo stato sociale cambia drasticamente: Stella ritorna una ragazzina povera e un po' rozza che non ha voglia di studiare e fa a botte con le coetanee che la prendono in giro. Da questo punto di vista Gladys, la compagna di banco che piano piano comincia a conoscere, rappresenta ciò di quanto più distante da lei possa esistere: famiglia intellettuale, hobbies impegnativi, letture altolocate (antitesi in questo di Geneviève, l'amica del paese, che sputa, dice parolacce e bacia senza pudore i ragazzi). Eppure l'amicizia che si instaura fra loro due dimostra con estrema sensibilità come i rapporti umani possano cambiare le persone: è grazie a lei se Stella "prende coraggio" e va a comprarsi il suo primo libro (e tutta la scena è descritta quasi come fosse un furto, bellissima); è grazie a lei se piano piano comincia ad accettare questa nuova realtà, invece che rifiutarla ostinatamente come all'inizio (e la promozione a fine anno sarà una significativa rivincita).
Il personaggio di Stella, la sua evoluzione e la sua finale presa di coscienza insomma avvincono, coinvolgono, colpiscono le emozioni dello spettatore, inutile negarlo. La Verheyde si è in qualche modo allontanata dai paragoni cinematografici usati per questo film: "I 400 colpi" (nel quale comunque ritroviamo il rapporto conflittuale con i genitori, interessati più alla gestione del microcosmo del bar che alle vicende della figlia, e quello letterario con Balzac) e l'ultimo "
La classe" (per l'ambientazione scolastica, che difatti è troppo poco), rivendicando come nascita della storia l'aspetto autobiografico e un'osservazione della realtà derivata proprio dalla sua esperienza personale (un po' come faceva Truffaut con Antoine Doinel).
Punto di vista che qui ritroviamo perfettamente: l'uso "realistico" della macchina da presa, così come la voce fuori campo di Stella, non stonano mai e anzi, ci avvicinano e rendono più partecipi col mondo della ragazzina, fatto di musica (quella pop francese dell'epoca, quella elettronica della colonna sonora originale, e persino un Tozzi d'annata nella scena più commuovente), riflessioni esistenziali ("sapevo tutto sul flipper, sul biliardo, sul gioco delle carte e anche su come nascevano i bambini, ma niente di tutto il resto"), e personaggi particolari (gli habituès del bar, tra i quali spicca un romanticissimo "angelo azzurro" Guillame Depardieu, poi scomparso poco dopo le riprese).
E su tutto la recitazione naturale, essenziale e efficacissima della giovane Léora Barbara, alter ego perfetto della protagonista con quel viso delicato e due occhi che parlano da soli.
La pellicola ci lascia con le parole di una canzone, che suonano come un manifesto o una dichiarazione di cambiamento, e nelle quali leggiamo benissimo tutta la storia del film: "Mi chiamo Stella, vado veloce, vado lontano, non ho più paura".
Non ne dubitiamo, e siamo tutti con te.
04/12/2008