"Un alieno a Vanity Fair", il romanzo autobiografico che sta alla base di questa commedia di Robert Weide, è una delle opere più divertenti e dissacranti degli ultimi anni. Il ritratto di un perdente tout court, che mette in luce le contraddizioni di un paese a lui straniero (gli Stati Uniti d'America) discutendone le fondamenta (il mito del successo e la "meritocrazia", termine coniato proprio dal padre di Toby Young), sbeffeggiando divi e personaggi famosi, senza timore di fare nomi e cognomi. Quello che traspare dal romanzo di Toby Young, nonostante il tono ironico e spigliato alla Nick Hornby, è un vero senso di amarezza e sconfitta, che era lecito non aspettarsi nell'inevitabile adattamento cinematografico di questo best seller. Aver letto "How To Lose Friends & Alienate People" ha l'effetto collaterale di sminuire i pregi di una commedia comunque gradevole e ben interpretata, che però al romanzo di Young (ripetutamente cacciato dal set perché aveva da ridire su ogni cosa) si avvicina proprio alla lontana.
Cambia epoca, cambiano i nomi dei personaggi, cambia il nome della rivista per cui va a lavorare il protagonista (che diventa "Sharps"), ma questo è il meno. Weide e lo sceneggiatore Peter Straughan smussano i lati più controversi del romanzo (la dipendenza da alcool e cocaina di Young), citano gli episodi più bizzarri (e che suscitano la risata), come quello del malcapitato cagnolino Cuba o del transessuale portato a casa per errore, e si "dimenticano" di passaggi fondamentali come le continue frustrazioni lavorative del protagonista che vede i propri articoli rifiutati di continuo, ma soprattutto trasforma Young da intellettuale goffo e fuori posto nella grande mela, dove sperava di ritrovare il mondo dei film con Cary Grant, in un simpatico e iconoclasta idiota, su misura per la comicità di Simon Pegg, che distrugge qualsiasi cosa gli passi a tiro. Ma, almeno nella prima parte, la pellicola di Weide ha buon ritmo e in un paio di occasioni sa affondare gli artigli in quello "Star System" che campeggia nel titolo nostrano (la stampa in mano agli uffici stampa dei divi). Peccato che poi, prendendo strade completamente diverse dal romanzo, il film viri verso un più prevedibile romanticismo, concentrandosi sulla contrastata love story tra il protagonista e la collega Alison (Kirsten Dunst), mettendo in secondo piano quel discorso sul vacuo mito del successo che era la forza dell'incipit, e inventandosi un climax finale di "peccato e redenzione" (con il protagonista che assaggia quella fama che tanto ambiva a raggiungere, ma poi si pente) che fa molto cinema yuppie anni 80.
Resta il buon gioco d'attori, con un grande Jeff Bridges nel ruolo del direttore della rivista, quasi un "Drugo Lebowski" inacidito e convertito al Dio Denaro (nell'ufficio ha un poster de "Il disprezzo" di Godard e sogna di bruciare il palazzo dove lavora) e una super sexy Megan Fox che interpreta con ironia un'attrice senza cervello, dialoghi sovente spiritosi ("il film più bello di sempre è Con Air") e tocchi cinefili inaspettati (il finale che scorre in parallelo alla proiezione de "La dolce vita" di Fellini). Considerato il materiale di partenza ci si poteva aspettare qualcosa di più, ma anche così non occorre lamentarsi troppo.
01/05/2009