Nessun essere umano può decidere quando nascere; né può stabilire, a parte casi disperati, per quanto tempo vivere. È facile ignorare la presenza della morte nella nostra vita, e cercare di vivere facendo finta che non esista. La morte è qualcosa che ti segue in ogni momento. Per me sarebbe innaturale pensare alla vita e alla morte come a due elementi differenti. Io penso di essere sempre costantemente pronto al suo arrivo, senza naturalmente essere attratto o, ancor peggio, ossessionato dalla faccenda. Piuttosto credo che chi è ossessionato dalla morte abbia di conseguenza lo stesso atteggiamento anche per la vita.
[Takeshi Kitano]
Una sonatina è una composizione musicale elementare, meno impegnata formalmente di una vera e propria sonata e più contenuta sul piano della durata. Ma è al tempo stesso una partitura che richiede la conoscenza base di ogni tecnica di esecuzione, fra quelle fondamentali. In questa doppia definizione c'è il duplice senso dell'opera miliare di Takeshi Kitano che andiamo a celebrare. Da una parte l'intenzione di non prendersi mai troppo sul serio, sdrammatizzando qualsiasi tematica affrontata, anche la più cupa e distruttiva; e dall'altra c'è invece l'ambizione, dopo un esordio da autodidatta dietro la macchina da presa, di marcare più forte il segno, di evidenziare come la sua tecnica e la sua poetica da regista hanno raggiunto un livello nuovo e impensabile.
Verso la fine ineluttabile
"Sonatine" è un noir sui generis che parla di un killer al servizio di un boss della Yakuza, ormai stanco della vita criminale e disilluso sul suo stesso futuro. Insieme a un gruppo di fedelissimi viene mandato sull'isola di Okinawa per far da paciere fra due bande rivali che preoccupano la base. Ma lì si accorgerà dopo qualche pericolo scampato di troppo di essere stato imbrogliato, di essere stato sacrificato dai suoi per calcoli strategici ai piani alti dell'organizzazione e di essere stato spedito in una missione senza ritorno: è lui infatti l'uomo da eliminare. A Okinawa, preso coscienza del fatto, Murakawa si abbandona a un'accettazione fatalista del suo destino, trascorrendo il tempo fra scherzi e giochi tradizionali insieme ai suoi uomini sulla spiaggia, fino all'inevitabile, tragico finale.
Realizzato nel 1993, "Sonatine" è il quarto lungometraggio diretto da Kitano e conferma definitivamente, consacrandolo agli occhi di pubblico e critica internazionali, il talento visionario del cineasta giapponese, capace di affiancare, con disarmante semplicità, l'aspetto rudimentale del suo cinema con la profondità delle sue riflessioni, con l'ambizione delle sue citazioni e con l'originalità toccante della sua poetica. Dopo il doppio esordio di "Violent Cop" e "Boiling Point", Kitano aveva già sorpreso almeno due volte. Prima, appunto, con i suoi esordi iper-violenti che hanno rinnegato il suo passato da cabarettista; poi, con la sua terza opera, "Il silenzio sul mare", aveva regalato un primo cambio di direzione stupefacente, passando da una messa in scena schizofrenica e aggressiva a uno stile di ripresa placido e compassato, coerente con la struggente storia d'amore tra i due sordomuti protagonisti. "Sonatine", come ogni capolavoro sintomo di maturità, è il punto di incontro delle prime due vite cinematografiche di Kitano. Come possiamo definire un film tanto stratificato? Forse con l'espressione di "tragedia classica ambientata nella modernità", una disarmante riflessione, prima di tutto, sulla caducità della vita umana.
La vita? Una lunga attesa prima della morte
I protagonisti di "Sonatine", infatti, sono sul punto di essere fatti fuori da un momento all'altro, il loro destino è stato già deciso dai loro capi, la loro vita, sulla pellicola, vale il tanto che basta a mettere in scena l'illusione prima e la morte poi. È sullo scarso rilievo che la vita ha davanti all'istante della morte che Kitano imbastisce la sua riflessione: per questo il tempo si dilata davanti alla macchina da presa. Il tempo che precede la morte, quasi sempre efferata e violenta, è indecifrabile e impalpabile come l'esistenza tutta degli uomini pronti a morire. Ripresi con campi stretti anche nei movimenti più dinamici, se non quando proprio attraverso primi piani, lo scopo del regista è annullare il ritmo dell'azione fisica, dilatando all'inverosimile lo spazio temporale che precede la fine.
Ma oltre alla questione centrale sul rapporto sfasato e squilibrato fra vita e morte, Kitano ritaglia in "Sonatine" numerosi momenti in cui riprendere il filo delle tematiche a lui più care. L'organizzazione mafiosa della Yakuza prima di tutto. Accusato da molti di essere ossessionato in modo morboso dall'universo della criminalità, Takeshi in realtà ne fa un uso strumentale. Il microcosmo criminale è lo specchio di un Giappone decadente, che ha perso il rispetto per determinati valori fondanti della società nipponica e che non si stupisce ormai di nulla, tanto meno delle sadiche e sanguinose operazioni della Yakuza. Ma è anche una società che si è lasciata colonizzare dagli stranieri, che ha perso lo spirito "sacro" sul quale si è fondata e che ha un'altissima percentuale di inspiegabili suicidi. Eccolo, un altro dei temi cari a Kitano. Il suicidio come momento riparatore, occasione per mondare i propri errori, nonché ultima possibilità per salvare da un destino atroce le persone amate.
Mafia, morte, natura
Yakuza, suicidio. E mare. Il mare nel cinema del regista giapponese è un agente purificatore, una sorgente arcaica di bellezza, pace e serenità. Nel loro ritiro spirituale, gli uomini di Murakawa è su una spiaggia che regrediscono a un'età quasi infantile, è sullo sfondo del rumore delle onde che dimenticano le responsabilità da criminali condannati a morte e riscoprono il piacere dello stare insieme, della condivisione, del dialogo e della risata. Il mare è ovunque in "Sonatine" e forte è l'intenzione di porlo in antitesi alla metropoli da cui proviene quell'orda di violenza e crudeltà che ha inaridito il Giappone.
Il cinema di Kitano troverà successivamente molte altre occasioni per rinnovarsi, crescere e anche migliorarsi sul piano estetico e narrativo. Ma l'immediatezza delle immagini che "Sonatine" trasmette rimane tuttora ineguagliata. Il gioco sull'arte cinematografica è sfrontato eppure tenuto sotto controllo: nel film c'è il rigore formale dei maestri nipponici come Yasujiro Ozu e Kengi Mizoguchi, c'è il "maledettismo" ostinato e malinconico dei non-eroi di Jean-Pierre Melville e c'è il gusto ludico per l'esplosione violenta tipica di Sergio Leone o Sam Peckinpah. Eppure Kitano ha sempre finto di non conoscere nulla della storia del cinema, di ignorare i capolavori del passato. Forse sarà anche in parte vero, chissà, ma resta impossibile non notare tante strizzatine d'occhio.
La violenza fuori campo
È anche vero, d'altronde, che nulla di quanto appena menzionato ha un ruolo preponderante nell'opera. Tutto viene rimescolato, senza regole prescritte, e riordinato in scena al servizio di una missione superiore, che va ben oltre il tentativo di un puntuale citazionismo. Attraverso la musica martellante eppure emozionante di Joe Hisaishi, autore di sette colonne sonore per Kitano, o il montaggio curato dallo stesso Takeshi che fa di un puzzle furiosamente composito un film solido e granitico, ogni accorgimento tecnico serve a dare un'immagine unica della tragedia umana secondo Kitano. Il regista non nasconde la violenza, anche se lascia al fuori campo i momenti clou degli scontri sanguinosi: però non la esibisce in modo compiaciuto, ne paga quasi il dazio di un'impossibile abolizione in un mondo reale. Lui stesso, varie volte, si è scagliato contro il cinema irreale, quello, a suo dire, che mette in scena cose o situazioni impossibili da incontrare nella vita vera.
Eppure anche in Kitano e in "Sonatine" c'è qualcosa di amplificato e stranamente fantastico: i volti degli interpreti, ad esempio, restano impassibili di fronte al sangue versato. I personaggi sparano, uccidono, torturano come se stessero mangiando o bevendo. La loro inespressività di fronte al male è anche il segno della consapevolezza di fenomeni talmente irrefrenabili da risultare attesi, inevitabili. E in tutto ciò, nell'incedere inesorabile della tragedia classica di cui abbiamo detto in apertura, resta negli occhi l'interpretazione di Beat Takeshi, come lui stesso ama farsi chiamare nelle vesti di attore. Prima dell'incidente che ne ha sfigurato in parte l'espressione del viso, Kitano resta comunque fedele alla sua stessa poetica e si mette al centro della scena con la fissità delle sue smorfie riprese costantemente in primo piano. Poche volte la bocca si allarga in un sorriso, succede nei momenti centrali, quando il boss ha accantonato il dolore della quotidianità e si gode attimi di pura demenzialità in riva al mare.
Iperrealismo e romanticismo
Insomma, "Sonatine" è una delle tante possibili declinazioni del noir secondo Kitano: è lentissimo fino all'esasperazione e concitato ai limiti dell'iperrealismo. È romantico e delicato quando riflette sull'importanza del sentimento amoroso e spietato quando mette in scena lo schifo dei delitti di matrice Yakuza. Sa essere citazionista nel suo omaggiare, magari involontariamente, grandi autori del passato, e nichilista nel suo non scendere ad alcun compromesso nel tratteggiare i contorni di un protagonista per nulla positivo, per nulla "buono", perdente e peccatore fino in fondo. Ma, soprattutto, è in grado di portare avanti con inimitabile profondità la sua analisi umanista sul senso vacuo della vita, sulla spasmodica ricerca che ognuno persegue, fino all'accettazione pacifica che il meglio che si può sperare è redimersi in tempo dai propri sbagli.
17/06/2014