Di tutt'altra pasta - rispetto a "Diane", di Kent Jones, anch'esso proiettato al
Settantunesimo Festival di Locarno - è il film della coppia di registi franco turca Çağla Zencirci e Guillaume Giovanetti, i quali per raccontare il romanzo di formazione della loro giovane eroina ci portano in un territorio dimenticato da Dio e dagli uomini e, nella fattispecie, in un villaggio isolato su una montagna della costa del Mar Nero in Turchia, dove la venticinquenne Sibel condivide la propria vita insieme alla sorella e al padre che è anche sindaco della comunità. Privata della voce in tenera età per i postumi di una febbre malcurata, Sibel comunica con gli altri modulando il suono dei suoi fischi. Una caratteristica, questa, che però non la salva dall'isolamento a cui la relegano non solo la particolarità della sua condizione fisica, ma anche e sopratutto le manifestazioni di una personalità - ancora acerba ma consapevole della propria indipendenza - che la ragazza esprime nella libertà (non concessa alla sorella) di entrare e uscire di casa a proprio piacimento e di passeggiare nel bosco alla stregua di un uomo, armata di fucile e pronta a uccidere il fantomatico lupo che vi si aggira.
Racconto di formazione e insieme favola nera per i riferimenti (archetipici) alle fiabe europee più conosciute, "Sibel" riesce nel duplice intento di essere da un lato un film di pura narrazione, raccontando le avventure della protagonista che ad un certo punto sceglie di nascondere agli altri la presenza del presunto terrorista di cui finirà per innamorarsi, e dall'altro di rappresentare i riti di passaggio di un'emancipazione che va oltre le vicissitudini personali e riscrive (all'interno della vicenda e nel messaggio lanciato dai registi) il ruolo sociale della Donna con un utilizzo originale di simboli e metafore legate al paesaggio naturale (la selva, il bosco, il fuoco, la notte). Ma a differenza di ciò che accade sovente in lungometraggi di questo tipo,"Sibel" organizza il suo discorso senza dimenticarsi della compagine maschile, che seppur spodestata dalla sua normale vetrina comunque ne partecipa con una dialettica non priva di sfumature e che per esempio, nel caso del padre di Sibel, si fa promotrice di una serie di sfumature psicologiche e di reazioni nei confronti della figlia ribelle che sono dimostrazione dell'antico retaggio patriarcale e, allo stesso tempo, lasciano intravedere la possibilità di un cambiamento in meglio e verso una prospettiva di ritrovata condizione tra uomini e donne.
Ma la ricchezza di un film come "Sibel" non si ferma alla sua mancanza di retorica, né alla constatazione della straordinaria performance di Damla Sönmez, un concentrato di energia in continuo movimento alla quale si deve aggiungere la capacità dell'attrice di supplire alla mancanza di parole voluta dal copione con un'espressività che ne moltiplica l'empatia. A colpire infatti è l'abilità dei registi di ribaltare le premesse di un processo creativo che partendo dal reale (il villaggio così come la lingua dei suoni presente nel film esistono per davvero e corrispondono a quello che lo spettatore vede sullo schermo) arriva a trasfigurarlo con una messinscena (iperrealista) che ne accentua l'autenticità. Presentato nel concorso internazionale e accolto da un lungo applauso del pubblico presente in sala "Sibel" si candida al premio per la regia e l'interpretazione femminile.
04/08/2018