Si presenta come il paesaggio in cui è ambientato il secondo film di Scott Graham, privo di appigli e ripiegato su se stesso nella stessa misura in cui lo sono i due protagonisti, appartati e soli, integrati da un linguaggio appartenente solo a loro, e che in mancanza di parole può essere compreso a patto di armonizzarsi su ciò che è invisibile agli occhi ma comprensibile al cuore. Ed è proprio sotto l'apparenza delle cose che bisogna cercare per cogliere il senso di un film che procede sintonizzandosi sulla ripetizione di gesti senza importanza, di quelli che non lasciano memoria, e che si accompagnano ai silenzi interminabili di cui l'opera è piena. Graham lo suggerisce in maniera impercettibile, annullandosi dietro la macchina da presa con inquadrature che scrutano nello sguardo delle persone, seguendone le traiettorie spesso incongruenti quando, negli snodi della storia, sono presi in contropiede dalle azioni dei personaggi, pronti a fare quello che non ti aspetti, a trasformare l'abbraccio filiale nelle premesse di un amplesso incestuoso mai consumato, e destinato a ripetersi più volte nel corso del film a sottolineare il tema centrale della storia, che è appunto la natura di un legame familiare definito da un'assenza - della madre morta prematuramente - che segna in maniera devastate l'esistenza di chi rimane. Come accade alla protagonista che si sente il dovere di compensare quella mancanza rinunciando di fatto alla propria vita.
Se il tema e la storia non erano nuovi, basti pensare all'inedito "The ballad of Jack and Rose" (2005), che in maniera diversa metteva in scena una vicenda quasi simile, bisogna dire che Graham si mette al riparo da qualsiasi stereotipo o imitazione con un lavoro di sottrazione che se da una parte elimina la tentazione del compiacimento autoriale, dall'altra arriva all'essenza di ciò che racconta, con un processo di scarnificazione che non riguarda solo i personaggi e gli ambienti, ripresi con inquadrature parziali, mai in grado di riprodurli nella loro interezza- la casa ma anche la piccola officina contigua alla pompa di benzina - oppure utilizzati come luoghi dell'anima - la natura sublime ed aspra riflette il sentire represso ma altrettanto basico e selvaggio dei due protagonisti - ma anche la forma, costruita su una tensione interna che rimane quasi sempre implosa, grazie ad un montaggio secco ed antiretorico. In egual modo "Shell" è anche la storia di un distacco in cui l'accumularsi degli avvenimenti, oggettivamente ordinari ma nella prospettiva di un' esistenza dove non accade mai nulla decisamente epocali - ci riferiamo per esempio alla morte del cervo investito da una macchina, oppure agli avventori occasionali che permettono a Shell l'opportunità di confrontarsi con altri modelli di vita - determina una presa di coscienza di sè e del mondo che la protagonista realizza in modo casuale ma netto nella sequenza in cui rincorre affannosamente la macchina per restituire alla bambina la bambola dimenticata nel negozio. Un passaggio in cui la forza di quella rivelazione è resa attraverso l'immagine del luogo natio, mostrato per la prima volta dall'esterno, con una campo lungo che lo comprende, ed insieme lo isola, rendendolo estraneo alla ragazza che lo sta guardando. E' in quel ribaltamento di prospettive, realizzato lavorando sulle immagini, e materializzato da un susseguirsi ravvicinato di dinamismo e staticità, che si concentrano simultaneamente la qualità di un film rigoroso e dolente. Ma "Shell" non sarebbe lo stesso senza la presenza di Chloe Pirrie, meravigliosa ed unica nel donare al film un'umanità che entra sotto la pelle e lì rimane. Vincitore del Torino Film Festival 2012 e di altri premi collaterali "Shell" non ha ancora trovato una distribuzione. E' quello che gli auguriamo insieme alla speranza di ritrovare un autore così promettente.
cast:
Chloe Pirrie, Tam Dean Burn
regia:
Scott Graham
durata:
87'
produzione:
Broken Spectre Jockey Mutch
sceneggiatura:
Scott Graham
fotografia:
Yoliswa Gärtig
scenografie:
James Lapsley
costumi:
Rebecca Gore