Giunti al termine della proiezione, i pur vivaci titoli di coda non mancano di suggerire una nota dolente: la consapevolezza che non potremo più godere in futuro del cinema di Carlo Mazzacurati.
A poco più di tre mesi dalla scomparsa, esce in sala l'ultima fatica di uno tra i più talentuosi cineasti della nostra penisola, capace di testimoniare, pellicola dopo pellicola, la costante vigoria intellettuale di uno sguardo sulla realtà al contempo appassionato e lieve, crudele e divertito, ma sempre intimamente partecipe della sorte dei suoi personaggi.
Non si può, comunque, dire che "La sedia della felicità" sia un film testamentario e Mazzacurati sembra essersi ben guardato dall'ipotesi di tirare le somme del suo cinema. A ben vedere, più che l'opera ultima di un colto e raffinato regista con alle spalle una florida carriera, la pellicola sembra il frutto di uno sguardo fanciullesco e sornione, pronto a restituire con svagata vitalità e un tocco lievemente surreale le inverosimili vicende di un'umanità strampalata e coloratissima.
Come nella migliore tradizione fiabesca, alla base dell'intreccio, che recupera lo spunto del romanzo russo "Le dodici sedie" di Il'ja Il'f e Evgenij Petrov e strizza l'occhio alle stravaganze e alle sature cromie andersoniane (non è casuale l'ammirazione di recente dichiarata verso "Fantastic Mr. Fox"), c'è un tesoro, accuratamente nascosto nell'imbottitura di un'orrenda sedia zebrata dalla galeotta madre di un celebre bandito (Katia Ricciarelli). La vecchia signora, però, non gode di buona salute e infatti spira in carcere, con le unghie smaltate a mezzo e tra le braccia di un'estetista (Isabella Ragonese), non senza averle rivelato in punto di morte l'insolita ubicazione del malloppo. Inutile dire quanto il bottino farebbe comodo alla donzella, vessata com'è dalle pressanti richieste di un buzzurro creditore (Natalino Balasso) a capo di una squadra di pignoramento rumena e sempre sul piede di guerra - "Bucarest 1, irruzione!". Peccato che un'asta giudiziaria abbia disperso per il Veneto i beni della defunta, costringendo l'intraprendente estetista, soccorsa dallo spelacchiato tatuatore del negozio di fronte (cui l'umanesimo sincero e sottilmente comico di Valerio Mastandrea dona straordinaria autenticità), a una vera e propria caccia al tesoro on the road, complicata dall'irrompere in scena di un insolito pretaccio (Giuseppe Battiston) dai nobili ideali, ma dalle ambizioni più che terrene.
A tenere assieme questo manipolo di scalognati una sceneggiatura tra le più felicemente sgangherate della carriera del regista, che immaginiamo scritta tutta d'un fiato rispondendo ai capricci del momento, piena di brio e pure di una certa eleganze sbilenca, che le viene dalla sincerità con cui squaderna il suo irripetibile campionario di perdenti. Siamo, ancora una volta, ai margini della società, in quella provincia a lungo esplorata dal talento di Mazzacurati e che richiama, per sineddoche, un universo di incomparabile ricchezza espressiva: vi trovano posto il mago Kasimir di Raul Cremona, l'impiegata truce del tribunale dalle insospettabili tendenze sadomaso, l'avido fioraio indiano, i gemelli di Antonio Albanese, il pescivendolo dalla parlata incomprensibile e la sua indisponente, ma infine generosa sorella, fino ai televenditori ciarlatani di Silvio Orlando e Fabrizio Bentivoglio, impegnati a propagandare le opere del montanaro Lievore Bepin, rinomato autore di avvincenti acrilici quali El me cagneto o La vacca pianze - "Puoi stringere sulle lacrime della vacca?".
Come spesso accade in un cinema così saldamente ancorato al territorio, sembrano essere talvolta i luoghi a suggerire i motivi al regista. Possiamo, dunque, immaginare il film come una successione di rime interne, la cui necessità poggia sul personale sentire dell'autore e non certo su una qualunque logica narrativa. La bellezza ingenua del finale è il trionfo stilizzato di una poetica altrove espressa forse con più efficacia, ma con meno sincerità ed è questa, in definitiva, che ci tocca fino a rendere naturale la sospensione d'incredulità richiesta dalla parentesi montana.
Va detto, infine, che chi scrive condivide l'opinione di Calvino (e Croce) per cui "di un autore contano solo le opere - quando contando, naturalmente": inutile cercare appigli biografici per confortare il giudizio su un'opera. Se, dunque, richiamiamo l'attenzione sul fatto che "La sedia della felicità" sia l'ultima opera che Mazzacurati ha regalato al suo pubblico, non è per blandire i dissensi verso l'approvazione generalizzata di cui il film va godendo in sede critica (in sé ragionevolmente sospetta). La ragione è che in tale prospettiva il movente del regista nel dar vita a questa pellicola ci appare vivificato da una diversa luce, quasi fosse un lascito testamentario, un invito a praticare, nell'arte come nella quotidianità, quella stessa leggerezza che, sfrondata dai detriti della superficialità, Calvino ha insegnato a considerare come sottrazione di peso, rifugio dall'inerzia e dall'opacità del mondo e che si nutre di precisione e rapidità del tratto. Qualità che il cinema minuzioso di Mazzacurati ha sempre privilegiato e che trovano, infine, ne "La sedia della felicità" un estremo e bellissimo compimento.
cast:
Valerio Mastandrea, Isabella Ragonese, Giuseppe Battiston, Katia Ricciarelli, Raul Cremona, Natalino Balasso, Roberto Citran, Mirko Artuso
regia:
Carlo Mazzacurati
distribuzione:
01 Distribution
durata:
90'
produzione:
Rai Cinema, Bi Bi Film, Angelo Barbagallo
sceneggiatura:
Carlo Mazzacurati, Doriana Leondeff, Marco Pettenello
fotografia:
Luca Bigazzi
scenografie:
Giancarlo Basili
montaggio:
Clelio Benvenuto
costumi:
Maria Rita Barbera
musiche:
Mark Orton
Alla base dell'intreccio, tratto dal romanzo russo "Le dodici sedie" di Il’ja Il’f e Evgenij Petrov, c’è un tesoro nascosto nell'imbottitura di una sedia dalla madre di un celebre bandito. La vecchia signora non gode di buona salute e infatti spira in carcere tra le braccia di un'estetista, cui rivela in punto di morte l'insolita ubicazione del malloppo. Peccato che un'asta giudiziaria abbia disperso per il Veneto i beni della defunta, costringendo l'intraprendente estetista, soccorsa dallo spelacchiato tatuatore del negozio di fronte, a una vera e propria caccia al tesoro, complicata dall'irrompere in scena di un insolito cappellano dai nobili ideali, ma dalle ambizioni più che terrene.