Le caratteristiche peculiari di "Searching" colpiscono con forza solo al termine della visione. È paradossale constatare come in questo thriller girato secondo le regole dello screencasting (cioè dalla prospettiva degli schermi digitali) i primi elementi a interessare lo spettatore non siano subito la particolare natura formale e lo sperimentalismo, bensì la partecipazione emotiva, la riflessione sociologica e il coinvolgimento psicologico attivo alla vicenda raccontata: la disperata ricerca del protagonista David Kim dopo la scomparsa della figlia Margot. Dei due grandi livelli interpretativi di questo giallo sui generis il più presente è a prima vista quello legato allo sviluppo tematico dei rapporti interpersonali nell'epoca digitale, perno comunicativo aderente alla trama, efficiente e trasversale, già affrontato ma sempre attuale, che si appoggia sull'empatia degli spettatori e alla loro sensibilità emotiva. L'altro, relativo alla natura della gestione del linguaggio audiovisivo, alle scelte di impostazione, al lato metatestuale di ogni prodotto cinematografico e di questo in particolare, accompagna in sordina ed esplode retroattivamente staccando il film dall'asse delle consuetudini.
Il prodotto firmato Bekmambetov e diretto dall'esordiente Chaganty è infatti molto convenzionale quando deve muovere le proprie pedine per disegnare messaggi e ottenere conclusioni di senso valide su temi importanti: durante la visione è facile seguirlo per anticipare i passi del percorso concettuale proposto, allineandosi ai momenti di critica e a quelli di accorato sentimentalismo, abbracciando la riflessione su come la rivoluzione digitale abbia cambiato i paradigmi del nostro vivere e di come la nostra natura abbia piegato la realtà dei mezzi informatici. Si rivela invece meno scontato dopo la fine, quando ci si rende conto (in qualità di spettatori) di dover riconsiderare in prospettiva non solo quanto visto ma anche la modalità con cui si è visto, a causa dell'utilizzo della particolare prospettiva adottata, influente sull'ottica e sulla soggettività della visione e quindi responsabile della trasformazione dell'esperienza cinematografica in qualcosa di ibrido e dello spettatore in un utente interfacciato con la narrazione. Alla fine del film, risulta evidente di aver partecipato senza accorgersene a un'esperienza quasi transmediale, impacchettata per fini di certo commerciali ma ideata grazie a una consapevolezza del mezzo digitale incredibilmente raffinata e realistica.
L'elemento più notevole è il modo in cui questa scelta linguistico-visuale (che spinge la narrazione fuori dal perimetro diegetico verso la realtà oltre lo schermo) riflette un'intenzione specifica dell'autore: dimostrare i differenti usi del mezzo informatico a fronte della complessità degli esseri umani accentuando a livelli intimi la questione grazie alla sovrapposizione della prospettiva del protagonista con la prospettiva dello spettatore. In questo modo la forma si rivela il contenuto più avvincente e più comunicativo. Quello meno limitato dal respiro narrativo convenzionale e più vicino alla complessità dell'intrattenimento dell'era digitale; quello più sottile del tanto sottolineato tema della responsabilità genitoriale e meno dichiarato dei codici di genere tanto seguiti; quello in grado di comunicare ad alta frequenza messaggi apparentemente dormienti e invece vivaci, scattanti e decisi a crescere assieme all'intelligenza di chi li considera anche dopo l'uscita dalla sala, quando gli occhi tornano sugli schermi più piccoli e dentro le vite più grandi.
22/10/2018