Quando, quattro anni or sono, il duo Nakache-Toledano fece exploit con "
Quasi amici", così gradito dal pubblico (d'oltralpe e non) da diventare in patria "il secondo maggiore incasso di tutti i tempi", sorprese un po' tutti. Com'è ovvio, la cosa non sfuggì ai distributori italiani che, di fronte ai lauti introiti, rispolverarono un lavoro precedente dei due registi, affibbiandogli il titolo posticcio di "
Troppo amici", come fosse un seguito della fortunata commedia. A quanto pare, l'ansia di replicare formule di successo, una costante in ambito produttivo e promozionale, questa volta ha colto pure i realizzatori e "Samba", nuova fatica della premiata ditta, ne è la prova evidente.
Ecco allora imbastita, sulla base del romanzo "Samba pour la France" di Delphine Coulin, un'altra commedia agrodolce che, sostenuta da una coppia di protagonisti simpaticamente agli antipodi, affronta un contesto delicato e drammatico su una collaudata partitura di battute, piacionerie varie e buoni sentimenti. Confermato al timone il possente Omar Sy, amabile gigione, basta rimpiazzare l'austero François Cluzet con una longilinea (e sprecata) Charlotte Gainsbourg, sostituire quindi all'amicizia virile una tradizionale storia d'amore, mantenendo sullo sfondo non più il tema della malattia, bensì quelli di immigrazione e integrazione, e il gioco è fatto. Eppure, paradossalmente, nonostante il preciso ricalco di un modello approvato in preventivo dal plauso del pubblico, in "Samba" quello stesso meccanismo pare non funzionare più. Se "Intouchables", al netto di certe ruffianerie, contava sulla complicità tra un invalido raffinato e aristocratico e il suo più genuino domestico, attivando dinamiche di coppia abbastanza imprevedibili e insaporendo il reciproco scambio di assistenza e amicizia con una spruzzata di (pseudo-)scorrettezza, qui manca quel mordente, quell'intesa e tutto affoga, in via irrimediabile, nel banale. Le responsabilità più rilevanti sono ascrivibili, in prima battuta, a una sceneggiatura tirata via con pigrizia, che proprio non si sforza di innervare un costrutto narrativo già abusato con dei personaggi dalle identità più sfaccettate. Al contrario, colleziona stereotipi: Alice, borghese stralunata e in aspettativa, per esorcizzare le nevrosi legate allo stress lavorativo, si prodiga come volontaria in un'associazione di assistenza legale per clandestini e così s'infatua di un immigrato spigliato e bonaccione, Samba, animato dalle migliori intenzioni ma poco assistito dalla fortuna. Intorno a lei c'è un grosso vuoto affettivo, mentre lui, che vive con uno zio burbero ma protettivo e spesso si accompagna a un arabo che si finge brasiliano per avere campo libero con le donne, deve fare i conti non soltanto con i problemi della clandestinità, ma anche con i sensi di colpa per aver tradito, in un momento di debolezza, la fiducia di un amico. Conoscendosi sempre meglio, i due scoprono di essere complementari.
Già debole in partenza - con un piano sequenza sfacciatamente (e inutilmente) didascalico che dalle danze forsennate di una festa di matrimonio in una sala ricevimenti attraversa le enormi cucine fino a inquadrare, negli ultimi recessi del locale, Samba che sgombera i piatti dal sudiciume e li ripone in lavastoviglie - la pellicola si svolge appiattendosi sull'elementare mélange di sequenze lievi e altre più amare, senza convincere per niente su nessuno dei due registri. Quando poi, procedendo verso l'epilogo, deve dar spazio a qualche colpo di scena, da insipida diventa pasticciata, concentrando in pochi minuti ralenti, inseguimenti,
plot twist all'americana, con l'ausilio del pletorico accompagnamento musicale di Ludovico Einaudi.
La colpa più grave di "Samba" sta, però, nella resa incolore della cornice reale in cui si inserisce. Nell'approcciarsi a una materia sociale di stretta attualità, Nakache e Toledano, che a tratti sembrano rifarsi anche ai classici della commedia all'italiana, non hanno la capacità di costruire un affresco autentico, e nemmeno, avendo optato per il didascalismo, di prendere posizione e veicolare messaggi forti, sviando da una retorica all'acqua di rose. Difetto, questo, che scaturisce dall'irresistibile desiderio di accontentare tutti, di blandire un pubblico quanto più ampio possibile e che, inevitabilmente, condanna il film alla più acritica superficialità.
24/04/2015