Ho girato S-21 perché ne ero convinto, ma anche perché pensavo che fosse necessario. Filmare significa essere con gli altri, anima e corpo. Devo la mia vita a coloro che sono morti, ho un debito nei loro confronti. Rithy Panh
Rithy Panh è un sopravvissuto, un uomo che ha visto la propria famiglia sterminata nei campi di lavoro del regime cambogiano. Emigrato in Francia ha potuto studiare, specializzarsi in cinema e audiovisivi e trovare uno strumento per raccontare la storia del proprio paese natio. Una storia oscena, turpe, quella della rivoluzione dei Khmer Rossi e di Pol Pot che conta circa due milioni di morti in quattro anni di violenza e terrore.
In "S21 - La macchina di morte dei Khmer Rossi", Panh ripercorre gli eventi legati all'Ufficio di Sicurezza 21, una delle sedi del regime nella quale venivano imprigionati, torturati e condannati a morte tutti i cittadini considerati nemici della rivoluzione. E lo fa nella maniera più agghiacciante: rimettendo in scena i soprusi, le vessazioni, l'orrore, chiamando in causa gli stessi carnefici di trenta anni prima. All'inizio del film, però, mostra un sopravvissuto come lui, un uomo che per casualità riuscì a non farsi ammazzare. Un uomo che a tanti anni di distanza cerca ancora una sorta di giustizia, indagando sul passato. In una delle prime scene lo spettatore è portato a domandarsi quale sia il limite del pudore: fino a che punto un documentarista si può spingere, cercare con la macchina da presa gli occhi grondanti di lacrime, pieni di dolore?
Eppure è una domanda che svanisce lentamente, man mano che il film avanza, perché l'oggetto del documentario più che la ricerca di una risposta al dolore della vittima è la cosiddetta "Banalità del male". Vengono obbligatoriamente in mente le parole di Hanna Arendt: "Il guaio del caso Eichmann era che uomini come lui ce n'erano tanti e che questi tanti non erano né perversi né sadici, bensì erano, e sono tuttora, terribilmente normali". Ad anni di distanza, lasciano sgomenti la freddezza e la compostezza con cui gli aguzzini raccontano delle torture, degli stupri e dei soprusi. Ci sono alcuni momenti, specie nell'introduzione, nei quali si scorge da parte di un assassino una specie di rimorso ma mai un vero pentimento, mai la percezione di aver commesso un errore. "Perché chiedere perdono se nessuno ha sbagliato?", ripete Nath, il sopravvissuto, segnando il fulcro dell'intero documentario. Nessuno ha sbagliato, portando avanti il genocidio si eseguivano esclusivamente gli ordini. Ogni azione fu trascritta, i registri compilati, tutti i detenuti fotografati e catalogati e tutto è ancora leggibile nei testi della burocrazia. Che rimangono lì, silenziosi per chi non vuole ascoltare.
Nella messa in scena il regista fa una scelta semplice, ma di una potenza struggente e che porta a riflettere oltre l'immagine. Prende le guardie e fa loro ripetere gli stessi gesti, le stesse manovre (aprire i cancelli, portare una ciotola di riso o un pitale, chiudere in catene o coprire gli occhi di una vittima) compiute migliaia di volte negli stessi luoghi di allora. Una sorta di "memoria del corpo" che ancora oggi è così vivida. Gesti di violenza che assumono un tono ancor più terribile se ripetuti in quelle stanze, quei corridoi ormai vuoti. Tragicamente vuoti. Gli assassini interpretano i loro stessi del passato e diventano protagonisti assoluti della scena, le vittime non ci sono più. Sono ormai "diventate polvere spazzata via dal vento".
Rithy Panh filma una sorta di teatro asciutto e crudele, dove la verità storica emerge con una forza sconvolgente tanto più perché viene evitato qualunque tipo di commento o di enfasi retorica. "S21 La macchina di morte dei Khmer Rossi" è un'opera che va recuperata per poter meglio comprendere gli orrori dell'essere umano e per imparare una magistrale lezione di cinema documentario.
20/11/2014