Ritrovare il cinema di Arnaud Desplechin è come tornare a riunirsi con dei vecchi amici attorno a un tavolo, in una bella casa al caldo, durante una fredda nottata invernale. Sedersi in sala e assistere alle nuove vicende dei suoi personaggi restituisce quella stessa sensazione di calore, di familiarità con un modo di raccontare la vita e il mondo contemporaneo che fa dell'empatia e della compassione i sentimenti dominanti. Capace come nessun altro nel panorama del cinema francese attuale, e come pochi in assoluto tra i registi viventi, di cogliere con discrezione ed eleganza le emozioni più complesse scaturite dai rapporti umani, Desplechin continua, film dopo film, a indagare su quel grande mistero che è la convivenza sociale, familiare, sentimentale, sommando a tutto questo uno stupore atavico per il dono del ricordo, una passione pura e disinteressata per il potere della malinconia e della nostalgia. Per quanto, a volte, la sua macchina da presa immortali situazioni di degrado e di miseria, quasi ci si trova a vergognarsi nel provare un senso di invidia per personaggi che, altrimenti, avrebbero ben poco da farsi invidiare. Eppure, la sincerità e la trasparenza con cui il cineasta francese mette in scena le loro vicissitudini, comprese le peggiori disavventure, amplifica un legame ideale tra chi guarda al di qua dello schermo e chi vive al di là di esso.
Come in "Racconto di Natale", come ne "I miei giorni più belli", e citiamo due fra le sue opere più ispirate, anche stavolta Desplechin ambienta la storia nella sua città natale, quella Roubaix che, se è nota al grande pubblico più come traguardo finale di una delle corse ciclistiche più leggendarie che come meta di un qualche interesse turistico, in questa ultima fatica cinematografica irrompe nel narrato come assoluta protagonista. Mentre nei due titoli citati, infatti, la città era solo il teatro all'aperto dove avevano luogo i fatti raccontati, qui Roubaix domina fin dal titolo della pellicola. Non solo, ma già nella prima sequenza, con il commissario Daoud (interpretato mirabilmente da Roschdy Zem) che compie un giro di pattuglia nella notte di Natale, le luci sfocate, le insegne abbandonate e le inquietanti zone d'ombra delle periferie conquistano il cuore delle inquadrature. È solo il principio di un polar atipico e assolutamente ingannatore, dove i meccanismi del genere poliziesco sono adoperati, pur nel rispetto di tutte le canoniche regole codificate, come una chiave d'accesso alle vicende di una moltitudine di personaggi.
Nella prima ora, la migliore, "Roubaix, una luce nell'ombra" è un clamoroso film corale, senza un preciso asse narrativo, in cui ciò che conta è un'attività costante eppure sempre controllata del commissariato di polizia, attraverso una serie di operazioni sul territorio che portano gli agenti a confrontarsi con molte piccole storie, quasi tutte legate a fasce sociali indigenti. Dal truffatore dell'assicurazione ai protagonisti di una rissa, da casi di furto a episodi di incendio doloso, fino a una ragazza scappata di casa e un'altra vittima di una violenza sessuale. I poliziotti di Roubaix affrontano tutto con un approccio compassato, dettato dall'abitudine e forse dall'assuefazione, ma proprio questo loro comportamento del tutto abitudinario li rende paradossalmente in grado di farsi ideali osservatori e risolutori di svariate ingiustizie, errori, cadute.
Desplechin, per tutta la prima parte del film, accantona la pretesa di una coerenza del racconto e lascia che la sua penna di grande sceneggiatore e la sua macchina da presa di virtuoso regista seguano senza soluzione di continuità tutte queste vicende. E in questo carattere episodico di quanto mostrato c'è la forza espressiva del film, una forza che emerge dalla capacità dell'autore di portarci per mano come in una sorta di visita guidata, un viaggio panoramico attraverso iniquità quotidiane, espedienti per sopravvivere, quartieri dove il benessere è un miraggio lontano. E in questo tour de force di immagini, voci, volti, scorci di città, scene in interni, Desplechin scatena la sua propensione naturale alla comprensione umana, aiutato da un cast corale selezionato con grande cura, riuscendo con pochi primi piani a restituire un'umanità composita e piena di dignità.
Nella seconda parte, invece, c'è uno scarto espressivo netto e quasi sorprendente. Il film assume i contorni della detective story con caratteri claustrofobici, perché inscenata in modo pressoché integrale all'interno del commissariato. Qui il gruppo di agenti che fanno capo al commissario cerca di far confessare la coppia di ragazze (interpretate da Léa Seydoux e Sara Forestier) accusate di aver ucciso una vecchia pensionata. Anche qui, seppur con una virata inattesa nei toni e nello stile, Desplechin non dimentica l'attenzione all'essere umano in sé, mai il suo personaggio si trasforma, come spesso accade nella cinematografia di genere, in una cavia, un fantoccio plasmabile a piacimento in ossequio ai canoni del poliziesco, del giallo o del thriller. Che si tratti delle due accusate o di chi le deve interrogare, c'è sempre un aspetto di profondo rispetto e di vera compartecipazione alle difficoltà che emerge dai confronti serrati messi in scena.
Senza svelare l'esito dell'indagine, che pure appassiona, è questo l'elemento che vale più la pena mettere in risalto, questa rilevanza del sentimento: l'amore che lega le due ragazze, la paura di perderlo, la comprensione di questo timore da parte degli agenti, una forma di pietà rispettosa da parte degli uomini di legge. Lo struggersi dei personaggi dei film di Desplechin è comunque sempre caratterizzato da un certo contegno: le lacrime sono trattenute, gli slanci emotivi sono controllati. È una forma di pudore, la sua: c'è una consapevole scelta nel prendere una strada forse meno diretta, ma più aderente alla realtà nel far arrivare allo spettatore questo insieme di reazioni.
A fare da collante tra la prima parte (meravigliosa) e la seconda (meno riuscita) c'è il personaggio del commissario, un uomo quasi al di sopra delle parti, che affronta quanto succede attorno a lui con una forma di ascesi rispetto ai fatti del mondo. Un uomo solo, ma non dispiaciuto di esserlo, con una famiglia di origine ormai lontana, con il Nordafrica ancora nel cuore ma ormai limitato a un dipinto che osserva rientrando a casa la sera (cui Desplechin riserva una spettacolare inquadratura zoomata), un cavaliere solitario che ci porta in giro per Roubaix e che il regista usa anche per mostrarci quel volto di città capace di rivelarsi accogliente con lo straniero: lo è nel bar che lo fa accomodare ogni sera, lo è nell'ippodromo in cui il commissario va a seguire il suo cavallo preferito, lo è nelle poche vetrine illuminate che ricordano agli abitanti che è pur sempre Natale.
Ma d'altronde il titolo dell'opera non è ironico né tantomeno vuole avere un gusto di dileggio per la città. La luce nell'ombra è proprio questa possibilità di risollevarsi, questa umanità e questa solidarietà che pure esistono ancora, questo commissariato di polizia che diventa quasi una locanda dove persone allo sbando e dimenticate da tutti vengono a sfogarsi, a trovare un ascolto, persino un consiglio o un supporto psicologico.
Accanto al navigato commissario, trova spazio anche il giovane tenente Louis, alle prime indagini di peso, che proprio non riesce ad ambientarsi a Roubaix e che la sera scrive al padre confidandogli tutto il suo sconforto, il suo senso di solitudine. Ecco, un elemento che colpisce è che c'è una costante con cui confrontarsi sempre: la mancanza di legami solidi, di rapporti e relazioni durature. Sia il commissario, sia il suo collaboratore sono uomini soli, non hanno una vita che non sia quella riempita dalle loro funzioni di agenti di polizia. Ed è particolare come Desplechin scelga due uomini così per dispensare non solo giustizia in questo quadro desolante, ma anche sostegno alle vittime di una crisi che non è più solo economica. Ancora una volta, nel cinema dell'autore francese, uomini e donne vivono con umiltà le proprie esistenze, ancora una volta ci troviamo di fronte a un cinema profondamente ancorato al reale eppure capace di voli ideali verso vite migliori.
Più lirico di Olivier Assayas, più concreto di André Téchiné, Desplechin si conferma ancora una volta un ispirato cantore di quell'impalpabile e inafferrabile senso di aspirazione alla felicità che, seppur invisibile e forse inesistente, anima e muove le azioni e le vite delle persone. Il senso di colpa di chi ha sbagliato, così come la relatività del concetto di verità, sono tutti elementi che annichiliscono in questa periferia del mondo, una città post-industriale ai confini con il Belgio, dove apparentemente "non c'è niente di bello, ormai" (parole del tenente Cotterelle), ma che in realtà nasconde qui, come a Parigi, il senso più nascosto della convivenza e del rispetto. Un nuovo racconto di Natale, capace di sprigionare calore dall'apparente freddezza, e amore dall'apparente insensibilità.
cast:
Roschdy Zem, Léa Seydoux, Antoine Reinartz, Sara Forestier
regia:
Arnaud Desplechin
titolo originale:
Roubaix, une lumière
distribuzione:
No.Mad Entertainment
durata:
119'
produzione:
Why Not Productions, Arte France Cinéma
sceneggiatura:
Arnaud Desplechin, Léa Mysius
fotografia:
Irina Lubtchansky
scenografie:
Toma Baquéni
montaggio:
Laurence Briaud
costumi:
Nathalie Raoul
musiche:
Grégoire Hetzel