"Vivo o morto tu verrai con me". È il 1987 quando il regista olandese Paul Verhoeven concede per la prima volta l'estro del suo genio creativo al servizio dell'industria cinematografica hollywoodiana. "Robocop" nasce dalla collaborazione del regista con lo sceneggiatore Edward Neumeier, uno dei primi a trarre ispirazione dall'epopea del precursore cybermovie Blade Runner. Come nel capolavoro di Ridley Scott, Verhoeven ricrea un atmosfera cacotopica dove degrado e delinquenza sono all'ordine del giorno e, in questo senso, la Detroit di Robocop può ritenersi figlia di quell'embrione che è la Los Angeles bersagliata dai replicanti capitanati da Roy Batty. Oltre all'atmosfera al tempo stesso magnetica e fatiscente, la chiave di volta del bellissimo "Robocop" è l'utilizzo di un registro innovativo che unisce all'ironia pungente verso politica, media e multinazionali, una buona scorpacciata di ultraviolenza (come la chiamerebbe Alex De Large) mai gratuita e che anzi riverbera gli errori prodotti dall'uomo in una futura dittatura capitalista dove la megacorporazione assume le veci dello Stato. La risultante è costituita da un'inevitabile e arguta riflessione sull'umanità in rapporto alla tecnologia incessante, sulla loro sinergia, sulla prevalenza dell'una sull'altra. Fino al tema della vendetta, sentimento che sancisce la totale presa di posizione della ragione sulla componente robotizzata.
La premessa era d'obbligo. Soprattutto sulla base della decisione degli addetti ai lavori e del regista Josè Padilha che non hanno voluto sentir parlare della parola remake. Quello che a loro preme è allora "esplorare le idee filosofiche alla base del concetto di Robocop", il che rende la missione ancora più dura. Si, perchè quello di Verhoeven è solo all'apparenza un giocattolone d'intrattenimento divenuto un cult. In realtà, anche se attraverso l'espediente di una messa in scena volutamente rozza e grossolana, risulta altresì una tra le migliori rappresentazioni cinematografiche della corrente cyberpunk profetizzata degnamente da altri suoi colleghi quali Cronenberg, Russell, Cameron e lo stesso Scott. A Padilha, forte dell'action a tinte documentaristiche di "Tropa de Elite" sulle operazione della polizia militare brasiliana (che si è aggiudicato l'ambito Orso d'Oro a Berlino nel 2008), spetta il compito di rielaborare i temi che gravitano attorno alla pellicola del 1987.
Ecco allora che dopo quasi trent'anni di impressionanti sviluppi tecnologici e una Detroit realmente in bancarotta, la triste storia che vede coinvolto il poliziotto Alex Murphy termina il suo fine corsa in un attentato dinamitardo che lo rende in fin di vita (nel film di Verhoeven Murphy era invece clinicamente morto). La Omnicorp (non più OCP) capitanata dal cinico Raymond Sellars, (un rinato Michael Keaton), sfrutta l'occasione per "vendere il suo prodotto di punta", un robot innestato su di un essere vivente. Sellars si sceglie l'assetto, la tuta, il colore, proprio come un comune bene da mettere sul mercato. Quello stesso mercato che sovverte l'etica umana. E sino a qua niente di nuovo. Padilha, dal canto suo, sfrutta l'interazione tra uomo e macchina per denunciare una violenza che invece di essere repressa, viene costantemente stimolata. E anche qua niente di nuovo. L'ironia, non molta a dire il vero, assume il volto e la parola del presentatore televisivo Patrick Novak (Samuel L. Jackson), capace di persuadere a colpi di bugie il mondo intero mediante il potere incessante dei media. No, neanche qua sta la novita. Dove, allora, Padilha innesta la sua "esplorazione filosofica"? Semplicemente prendendo di petto l'unico tema che nell'originale era stato affrontato con superficialità: la famiglia. Padilha riesce, di fatto, a sorprendere lo spettatore nella prima parte, puntando i riflettori non su Robocop bensì su Murphy (il gigante Joel Kinnaman) e la sua famiglia. Il robot innestato dal dottor Norton (Gary Oldman) è fondamentalmente umano e ogni volta che interagisce con un'altra persona il suo volto si materializza per intero nascondendo la maschera. La moglie Clara e il figlio David rimangono per l'intera durata del film un tassello fondamentale nel progetto di Padilha perché assecondano lo stato di Alex al fine di supportarlo psicologicamente alla trasformazione da lui subita e alla perdita del libero arbitrio.
Di rielaborazione, comunque, ne rimane ben poca. L'attualità resta ma il sentore è che la pellicola sia più un rifacimento e insieme un omaggio di un costrutto già esistente piuttosto che un'analisi complementare alla direzione di Verhoeven. In fondo, il "Robocop" odierno è un prolungamento del precedente, aggiornato a tre decenni di sviluppi tecnologici ma senza il genio e la capacità creativa infusa dagli artefici. Rimane pur sempre il fattore intrattenimento, su questo fronte il regista brasiliano non si esime da spettacolari effetti visivi (c'era una volta nel 1987 la stop motion a ricreare tali effetti) e mirabolanti sparatorie, senza incedere troppo sulla violenza manifesta.
E poi c'è un'ultima, fondamentale, annotazione: chissà se a Hollywood, in fase di preproduzione, prevalesse il bisogno socioculturale di riproporre una pellicola di estrema attualità o la moda riluttante, afasica e deprimente di mitragliare e riciclare idee del passato? Per Verhoeven poi non è la prima volta. Non è che per caso le riflessioni e lo spirito lungimirante del mezzo cinematografico sono solo secondarie al bisogno di riadattare un supereroe sul grande schermo, alla stregua di un più aggiornato Spiderman o di un Superman divenuto uomo d'acciaio? Se così fosse l'industria hollywoodiana non sarebbe poi così tanto distante dai principi della Omnicorp...
cast:
Joel Kinnaman, Michael Keaton, Gary Oldman, Samuel L. Jackson, Abbie Cornish
regia:
José Padilha
titolo originale:
Robocop
distribuzione:
Sony Pictures
durata:
121'
produzione:
Columbia Pictures, Metro Goldwin-Mayer
sceneggiatura:
Nick Schenk, James Vanderbilt, Joshua Zetumer
fotografia:
Lula Carvalho
scenografie:
Martin Whist
montaggio:
Peter McNulty, Daniel Rezende
costumi:
April Ferry
musiche:
Pedro Bromfman