Forse non sono un buon attore, ma qualsiasi cosa avessi fatto sarebbe stata peggio
Sean Connery
La rivisitazione di una storia celebre è pratica abbastanza comune nella storia del cinema. Certo, a volte la rilettura è geniale, altre volte superflua, ma la fascinazione per la sfida ha interessato nel corso dei decenni molti cineasti. Diverso è invece il discorso valido per "Robin e Marian" del 1976, con cui il grande Richard Lester, supportato dal drammaturgo James Goldman in fase di sceneggiatura, non si è limitato all'impresa di stravolgere il mito, ma si è spinto oltre. Egli, infatti, ha immaginato una sorta di prosecuzione della leggenda. Volendo utilizzare dei termini attuali, diremmo che non si sia trattato né di un newquel (una narrazione alternativa del soggetto già noto), né di un semplice sequel (il proseguimento di una vicenda già raccontata). Diremmo che "Robin e Marian" possa essere considerato una sorta di postquel, ovvero un secondo capitolo, senza però che questo sia stato preceduto da un primo. Lester usa l'epopea con altri scopi, ne fa una materia da plasmare a piacimento, prescindendo dagli eventi cardine che hanno contribuito a trasformare la storia di Robin Hood in un vero e proprio manifesto di coraggio e di indomita ribellione al potere. La riflessione intellettuale del regista britannico si fa sofisticata perché non è sua intenzione demolire alcunché, anzi. Il proposito è quello, viceversa, di arricchire l'immagine dell'eroe, aggiungendo degli anni alle gesta conosciute, facendone un uomo che riesce ad andare oltre le sue stesse imprese, diventando non più un simbolo di "solo" coraggio, ma piuttosto un emblema della durezza della vita terrena. La grandezza del film è in molteplici aspetti, ma quello forse più importante sta proprio in questo approccio rivoluzionario da parte dell'autore: il prode beniamino popolare del Medioevo si fa portatore delle riflessioni esistenziali più tormentate dell'uomo contemporaneo.
Vent'anni e più dopo le vicende che abbiamo imparato a conoscere di Robin Hood, messe in scena molteplici volte anche in svariate pellicole cinematografiche, uno stanco uomo di mezza età fa rientro in Inghilterra, dopo aver seguito il suo re Riccardo nella fallimentare esperienza delle crociate in Terra Santa. La prima sosta di riflessione disillusa è in questo rapporto tormentato con il sovrano: dipinto come un valoroso condottiero dalle storie tramandate di villaggio in villaggio, Riccardo è in realtà un maniaco sanguinario che gode nel torturare le sue vittime. Robin, partito per il Medio Oriente convinto di fare del bene accanto a un virtuoso comandante vede attorno a sé morte e persecuzione. Rientrato in patria dopo la morte di Riccardo, incontra i vecchi amici, ma poche altre cose sono rimaste invariate. La foresta di Sherwood è stata pressoché abbandonata, il popolo si è assuefatto ai soprusi dell'autorità, la religione è diventata vittima delle angherie del potere e, di conseguenza, preti e suore sono banditi. Robin scopre che Marian, nel corso di tutto questo tempo, ha preso i voti ed è diventata la badessa di un convento. L'incontro-scontro tra i due è tutto giocato da Lester sul tono del paradosso e dell'umorismo classico proprio del cinema inglese: i loro dialoghi sono tutto un susseguirsi di battute acide, di rimproveri bonari, di tensione impregnata di ironia. La penna di Goldman assegna ai due protagonisti due visioni diverse del tempo e dell'incedere dell'età; da una parte Robin si ostina a non guardare i segnali che giungono dall'esterno e anche dal suo stesso corpo, continua pervicacemente a predicare un'eterna giovinezza, una forza di spirito capace di guidarlo in imprese sempre più faticose e ambiziose. Marian, dal canto suo, rappresenta l'accettazione stessa degli anni che passano, la razionalità di fronte all'invecchiamento, a differenza del suo antico amato ella sa che la clessidra del tempo non può essere rovesciata nuovamente.
In mezzo ai protagonisti, c'è lo sceriffo di Nottingham, interpretato mirabilmente da Robert Shaw. Considerato fin dai titoli di testa meritevole di spartirsi la scena equamente rispetto ai due divi, Shaw dà una forma del tutto nuova allo sceriffo, rispetto alle letture precedenti e a quelle che seguiranno. Ciò che colpisce maggiormente del lavoro attoriale in questo caso è il concetto di dignità. Questo sceriffo, certo pur sempre antagonista dell'eroe nel rispetto della tradizione, è in realtà un retto e rispettoso avversario, la cui parola conta davvero e il cui codice morale gli impedisce di colpire a tradimento i nemici. I primi piani di Lester sul volto di Shaw che osserva quasi ammirato le gesta del suo fiero sfidante sono emblematiche di questa atmosfera generale che pervade tutto il film: "Robin e Marian" è fondamentalmente un'opera che eleva il crepuscolare sentimento della nostalgia a manifesto artistico, riuscendo a metterlo in scena in ogni forma possibile, a volte in chiave comica, a volte in chiave tragica. C'è la malinconia di Robin, il cui furore giovanile lasciava presagire un futuro più giusto per l'Inghilterra e invece ha portato con sé solo disillusione e rimpianto; c'è la malinconia di Marian, che inseguiva un amore totalizzante e che ha dovuto accettare gli anni che passavano fino a scoprirsi invecchiata e appassita; e c'è l'avvilimento dello sceriffo, che si ritrova ad amministrare un territorio affollato di nobili pavidi e corrotti, mentre nei suoi occhi balena ancora l'epicità di scontri violenti ma leali con avversari da rispettare nelle loro idee e nella loro moralità.
Alla ricerca del tempo perduto
Malinconia, Tempo, Amore. Sono i tre pilastri del capolavoro di Lester. Ed è incredibile riflettere sulla versatilità dello stile di un regista capace di muoversi in campi così diversi, eppure in modo sempre efficace. Americano innamorato della vecchia Gran Bretagna, Lester ha legato a Londra e all'Inghilterra il meglio della sua produzione cinematografica, andando a segnare almeno tre capitoli essenziali nella storia del cinema britannico. In primo luogo, Lester è stato il rivoluzionario artefice dell'epopea dei Beatles sul grande schermo, riprendendo le loro prodezze in due film essenziali per il concetto stesso di pellicola-concerto: con "Tutti per uno" e "Aiuto!" riuscì infatti a mettere in scena un connubio mirabile di finzione e documentario, andando a inquadrare l'essenza stessa dell'esibizione live come nessuno aveva mai fatto prima di lui.
Poi c'è stata la parentesi della commedia sofisticata, con venature di sensualità inaudite per l'epoca (siamo a metà degli anni 60) e con uno sguardo a metà fra l'innamorato e l'ipercritico per riprendere pregi e difetti di quella rivolta culturale che fu rappresentata dal fenomeno della Swinging London. Attraverso un gioco di equivoci e di virtuosismo registico senza freni, in "Non tutti ce l'hanno" Lester segna un momento eccezionale della commedia europea e, si potrebbe anche dire, dell'evoluzione del costume inglese. E infine ci fu il registro da autore di lungometraggi di genere, capace di spaziare dal comic movie al cappa e spada, riuscendo in una miscela che è dono concesso a pochi altri cineasti dell'epoca. Senza mai compromettere quel suo approccio leggero e scanzonato, Lester, da grande conoscitore della storia del cinema e del mezzo tecnico, dimostrò quasi sempre la sua duttilità nell'adattarsi ai codici prescritti, dimostrando come il rispetto per la tradizione potesse ben amalgamarsi con una volontà di innestare delle novità nella stessa. Ed è quanto accadde nel genere avventuroso-storico con "Robin e Marian", dove tutto, dalla magnifica fotografia di David Watkin, virata su colori pastello per amplificare l'effetto sognante e nostalgico, alla colonna sonora imperiosa eppure soave curata dal mitico John Barry, fino alle eccezionali scenografie naturalistiche di Michael Stringer, tutto, dicevamo, contribuisce a restituire una cornice visiva assolutamente coerente con l'immaginario collettivo del mito di Robin Hood. Lester non dimentica nulla e passa in rassegna ogni forma stereotipata di quel Medioevo inglese: il verde accecante dei prati e delle colline, la rigogliosità selvaggia della foresta di Sherwood, la meticolosa ricostruzione dei borghi, affollati di carretti e di operosi abitanti. Eppure, "Robin e Marian" è un'opera che prescinde da tutto questo, che guarda a un'universalità dei valori e del linguaggio, a sentimenti e dubbi dell'animo umano che travalicano la leggenda stessa dell'arciere Robin.
Tradire la leggenda
Il tempo e l'amore, si diceva. Due concetti su cui Lester delinea la personalità dei due protagonisti, ma con cui struttura anche lo spirito più profondo del film. I segni sul corpo, il fisico che invecchia, il tramonto del desiderio carnale da una parte; e dall'altra, la dolcezza del ricordo, la gioventù rimpianta e i rimorsi per le occasioni perdute. Robin e Marian si crogiolano e al tempo stesso si tormentano per questo. Fino alla decisione finale della donna che, dopo aver abbandonato le sue perplessità sul lasciarsi trasportare da antiche emozioni mettendo da parte la fede in Dio, prende coscienza del fatto che quella passione che i due hanno vissuto decenni addietro non potrà più tornare allo stesso modo, "non vivremo più giorni come questi", sospira Robin ferito al termine del suo definitivo combattimento con lo sceriffo. Lester invecchia come Robin e come Marian e sceglie la strada consapevole dell'immaturità nella messa in scena dell'amore: decide di fare in modo che ai due protagonisti resti impressa la memoria dei momenti migliori, sacrificando una vecchiaia potenzialmente felice. L'estremo atto d'amore con cui Marian si avvelena e avvelena il suo amato, che arriva come un colpo a sorpresa nell'ultima sequenza della pellicola, è un manifesto che sublima tutto quanto il narrato e che, in un certo senso, permette all'autore di ricollegarsi con grande rispetto, proprio sul finale, allo spirito della consuetudine. Dopo aver raccontato una vicenda inusuale di come Robin e Marian diventano adulti e perdono la forza degli anni giovanili, Lester li riporta indietro e invita lo spettatore a ripensarli come li abbiamo sempre immaginati. Un atto d'amore verso la leggenda e verso quel potente legame saldato nel corso di tanti film e tante storie già scritte.
Non abbiamo ancora mai citato per nome i due interpreti, Sean Connery e Audrey Hepburn, sublimi entrambi e capaci di creare un'alchimia impareggiabile davanti alla macchina da presa. Arrivavano a "Robin e Marian" in condizioni molto diverse. Per Connery era "solo" un altro tassello di una filmografia che negli anni 70 era stata molto coraggiosa nel percorrere strade alternative all'iconografia creata da James Bond e, non sappiamo quanto casuale o quanto voluto, questa strada intrapresa dalla stella scozzese annoverava, anche prima del suo incontro con il mito di Sherwood, diversi titoli dove Storia, avventura e leggenda si mischiavano continuamente. La Hepburn, al contrario, giungeva all'incontro con Lady Marian dopo anni di silenzio: dopo "Gli occhi della notte" di Terence Young c'erano stati nove anni di inattività e di tormentate vicende private. In mezzo, molti rifiuti di parti eccellenti e soltanto l'offerta di Lester l'aveva convinta a interrompere il suo esilio. Nel monologo finale, miracolosa commistione tra lacerante malinconia per il tempo che non tornerà mai più e totalizzante dichiarazione d'amore per l'uomo atteso per tutta una vita, a parlare non è solo la protagonista Marian, ma è la stessa, divina Audrey. In quelle parole, infatti, non c'è solo l'essenza di questo capolavoro, ma anche la chiave per leggere una vita intensa, magnifica e al tempo stesso sofferta.
cast:
Sean Connery, Audrey Hepburn, Robert Shaw, Richard Harris, Nicol Williamson
regia:
Richard Lester
titolo originale:
Robin and Marian
durata:
106'
sceneggiatura:
James Goldman
fotografia:
David Watkin
scenografie:
Michael Stringer
montaggio:
John Victor-Smith
musiche:
John Barry