C’è un rapporto tra provenienza e identità? O meglio, è possibile costruire un’identità senza conoscere le proprie origini? Questo è il problema che affligge la protagonista di "Ritorno a Seoul"; ed è una doppia questione, narrativa e critica.
Freddie (Park Ji-min), venticinque anni, è in Corea del Sud per turismo; così racconta a una coppia di coetanei appena conosciuti. Nata in Corea, è cresciuta in Francia con una famiglia adottiva e non ha mai conosciuto i genitori biologici. Quando le viene chiesto se non sia curiosa d’incontrarli, la ragazza mostra indifferenza. Ha sempre questa espressione compiaciuta, sbarazzina eppure rigida. Quel che è dato sapere di questa protagonista, lo spettatore lo apprende dalla sua stessa voce. D’improvviso Freddie lascia il tavolo per sedersi con sconosciuti, rompe il ghiaccio e li invita a bere insieme ai due ragazzi con cui è entrata nel locale; poi attira gli avventori di un altro tavolo. Freddie, a distanza di qualche sequenza, ha eluso la domanda sui genitori; o forse ha reagito a essa, l’ha schivata. Aveva appreso, nel frattempo, per caso, che il centro per le adozioni accoglie le richieste degli adottati d’incontrare i propri genitori. Il desiderio di conoscere chi l’ha messa al mondo, chi al mondo l’ha consegnata fin da subito, era già in lei; la casualità di eventi che trasforma la visita in Corea nella ricerca di padre e madre è apparente, anzi casualità non è affatto. L’intento originario del viaggio è adesso evidente, non importa quali e quanti siano i tentativi di depistaggio della ragazza. L’indomani, o qualche giorno dopo, non è chiaro e non importa, la protagonista raggiunge il centro per le adozioni e avvia la pratica per conoscere i genitori.
Un primo momento di svolta è l’incontro con il padre, il quale, a differenza della madre, risponde alla richiesta. Al fianco di Freddie, in questa ricerca, la ragazza del locale, Tena. Freddie parla francese e inglese, Tena inglese e coreano, il padre di Freddie solo coreano. L’incontro con quest’ultimo, pescatore, e la famiglia di lui, attiva un meccanismo statico: lo scambio lento e pedissequo delle battute mediate, dall’inglese al coreano sottotitolato in inglese e viceversa, con qualche inserto in francese. In questi passaggi linguistici, in queste ripetizioni, le emozioni restano imbrigliate, affiorano appena, come i pesci che boccheggiano contro una rete da pesca sul livello dell’acqua: l’indifferenza di Freddie sembra sfumare in altro, timidezza o diffidenza; la vergogna del padre, alcolista, e la sua felicità nel conoscere la figlia restano soffocate. Tutto resta in superficie oppure immediatamente sotto un primo strato sensibile. La gestualità è ridotta al minimo, alla cortesia. Offrire e bere soji in ogni istante riempie i vuoti. La colonna sonora è quasi assente, fatta di pochi cenni, e non aiuta anzi asseconda questo senso di asfissia indolore. Dall’originale al tradotto c’è qualche sbavatura, ma forse è intenzionale: la richiesta di una "relazione profonda" diventa dichiarazione di "amore"; il "dolore" del papà per aver fatto ricorso all’adozione, "senso di colpa". Piccole sviste, apparenti sfumature, forse calcolate, eloquenti, che misurano la distanza di Freddie dal mondo coreano e forse da qualsiasi mondo che non sia il suo. Nel frattempo, nelle telefonate con la famiglia adottiva, cresce pure la lontananza tra la protagonista e la Francia. I riferimenti geografici e culturali della propria identità, anziché precisarsi, scoloriscono.
Se Freddie è nei fatti una ragazza francese, c’è una perdenza in questo travaso di senso, linguistico ed emotivo; forse è solo l’incomprensione dello spettatore occidentale verso il costume coreano. Ma qual è il costume coreano? In un altro film, il brillante "Lost in Translation", la regista e sceneggiatrice Sofia Coppola risolveva questo gap tra un mondo e un altro con l’ironia: la barriera linguistica diventava confine culturale e poi contorno di una comicità spassosa; anche James L. Brooks aveva un intento simile, nella scrittura e direzione di "Spanglish", divertente e a momenti esilarante. Ma è solo nel primo film che un pezzo di occidente osserva un pezzo di oriente, e ne ride, cercandone la complicità. In "Ritorno a Seoul", invece, i passaggi di traduzione creano vuoti, ambiguità, ulteriore smarrimento. Il tono, che non è drammatico, resta tenue. Freddie è a tutti gli effetti una giovane donna occidentale, non diversa dal personaggio di Scarlett Johansson in "Lost in Translation", ma più cupa che malinconica. Freddie torna a più riprese in Corea del Sud, nel corso degli anni, ostinata nel tentativo di conoscere pure la madre biologica, ancora elusiva. Il suo stare nel paese natio, si direbbe, è possibile fin tanto che la ragazza possa rompere schemi, sfidare l’apatia; integrarsi nella società coreana a patto di erigere nuove e più fittizie barriere.
Ecco quindi la doppia questione del personaggio, narrativa e critica: tanto Freddie è sfuggente, tanto il suo personaggio è vago; al migliorare dei rapporti tra la ragazza e il padre naturale, che nel frattempo smette di bere e di molestare la figlia via messaggi, scaricandole addosso tutta la sua vergogna ("ma gli uomini coreani sono fatti così", spiega Tena), Freddie diventa meno diffidente e insieme più distaccata. Nella ricerca di identità, la protagonista non risolve i suoi turbamenti né li scorge. Resta un processo incolore, né comico né drammatico; la speranza d’incontrare, conoscere e conoscere ancora i genitori naturali si mischia al tedio e alla vanità. Il racconto non è una "ricerca viscerale di identità", come l’ha definito Hollywood Reporter (nella ricerca, forse viscerale, di uno strillo da offrire al trailer del film). La ricerca, come il racconto, non conduce la protagonista da nessuna parte, presso nessun altro né tantomeno nelle vicinanze di se stessa.
cast:
Park Ji-min, Guka Han, Oh Kwang-rok, Kim Sun-young
regia:
Davy Chou
titolo originale:
Retour à Séoul
distribuzione:
I Wonder Pictures, Mubi
durata:
119'
produzione:
Aurora Films, Vandertastic Films, Frakas Productions, VOO, BeTV
sceneggiatura:
Laure Badufle, Davy Chou, Violette Garcia
fotografia:
Thomas Favel
montaggio:
Dounia Sichov
costumi:
Claire Dubien, Choong-Yun Yi
musiche:
Jérémie Arcache, Christophe Musset