Il trionfo dello stereotipo.
Dispiace un po' dirlo, perché in fondo non ci saremmo aspettati una onesta regista come Anna Negri, abile a raccontare storie dall'ottica prettamente "femminile" ("In principio erano le mutande") in modo carino ed originale, sprecarsi così, in questa sorta di malriuscito
mockumentary (già a sentir dire questa parola vengono i brividi: vorrebbe semplicemente dire "finto documentario" ma c'è dietro un gergo inglesizzato che va tanto di moda adesso) sui giovani d'oggi, sulla loro precarietà nel lavoro e nei sentimenti.
Spiace anche perché nel
cast il film annovera comunque due brave attrici italiane che sembravano aver ingranato molto bene e che invece così si rimettono (un po') in discussione. Una è Alba Rohrwacher, ormai volto di tendenza del cinema d'autore nostrano (ultimamente è apparsa praticamente dappertutto), ottima quando si tratta di impersonare personaggi secondari a cui conferisce un incredibile spessore ("Giorni e nuvole", "Mio fratello è figlio unico"), non ancora adatta magari al "salto di qualità" per il ruolo da protagonista (si veda anche l'ultimo Avati). Qui il ruolo della ragazza madre "sedotta ed abbandonata" la costringe a forzare un po' la mano e a caricare la sua recitazione di
pathos, sofferenze e vittimismi che alla lunga stancano (così come quel marcato accento di parlata che pare umbro: strano essendo lei nata a Firenze...).
L'altra è la biturgense Francesca Lodovini, che dopo qualche particina sparsa qua e là (c'è chi la ricorderà ne "L'amico di famiglia" di Sorrentino) aveva impressionato per bravura e maturità nell'ultimo film di Mazzacurati (il notevole "La giusta distanza"). Qua diventa in sostanza il "doppio" di Lucia (la Rohrwacher), quella che gli contende l'uomo, che glielo porta via, una figura neanche troppo ben definita capace di regalarci soltanto una scena, a suo modo, da ricordare, quando con il ragazzo in questione si mette ad amoreggiare su per una rampa di scale sotto lo sguardo imbarazzato di un
cameramen.
Sì, perché, poi (purtroppo) c'è anche la storia del film, che sarebbe per l'appunto quella di due
filmakers intenti a realizzare un documentario sul lavoro precario, obbligati a seguire le vicende della coppia in questione (Lucia e Giovanni), coinvolti loro malgrado nelle loro vicissitudini sentimentali. La coppia di produttori, Amendola-Neri (già autori di quel capolavoro all'inverso che era "Melissa P."), sembra aver avuto l'idea della vita: visto che ormai vanno tanto di moda i film sui giovani in difficoltà col lavoro, perché non farne uno su una
troupe che vuole fare un film del genere ma che poi si ritrova a realizzare qualcosa di completamente diverso?
Peccato che i due
cameramen, uno dei quali in seguito diventa attivamente personaggio protagonista, nel loro dar vita ad una scenetta che si ripete sovente nel film (chiusi in macchina, intenti a mangiare, discutono su ciò che stanno riprendendo man mano e sull'utilità di ciò che stanno facendo) operino a tutti gli effetti anche loro un vero e proprio "commento al film": insomma, è come se indicassero agli spettatori qual è il punto di vista da seguire.
È questo un esempio per indicare il banale e semplicistico piano di rappresentazione del film: la trovata del
mockumentary dura per dire neanche il tempo dei titoli di testa, perché subito dopo scopriamo subito che c'è una videocamera che riprende, che c'è un artificio in corso (l'inquadratura-controcampo dei due ragazzi che riprendono), si perde subito gusto. Non parliamo poi dei personaggi, stereotipi camminanti in tutto e per tutto il cui emblema è senza dubbio Giovanni, il compagno di Lucia: riesce a racchiudere in sé quello dell'artista (fa l'attore), del "bello ed impossibile" (si veda il rapporto che ha con la fidanzata e con l'amante), dell'uomo in crisi (scappa perché ha un figlio neonato), del lavoratore precario in difficoltà (trova ruoli solo nelle fiction, in cui appare persino come una specie di "frate-emo", in saio, barba e ciuffo obliquo perfettamente pettinato); vi si aggiunga anche il suo parlare per frasi strafatte ("siamo troppo fragili, io e te"), e il piatto è servito.
Ora, che il tutto sia stato fatto apposta o meno (la conferma per dire è data dalle amiche di Lucia, ognuna una tipologia di donna differente che manco fatta con lo stampino), risulta comunque improponibile. E fastidioso, così come la reiterata tecnica dello
stop and go, nella quale la scena si ferma ed uno dei personaggi, sguardo in camera e sfondo neutro, commenta (ancora?) la situazione appena successa.
Cos'altro dire? Magari era meglio evitare questo gioco di parole, ma dato che siamo in tema di banalità, adattiamoci: "riprendersi" da questo film, specie se si è pagato per vederlo, sarà impresa abbastanza ardua.
12/10/2008