Siria, 2010. Giwar Hajabi, un curdo sui trent’anni, viene brutalmente condotto in una prigione in mezzo al deserto, dove altri uomini, ammassati in uno stanzone, sono divisi per etnie e lingue, pisciano in bottiglie di plastica appese alle pareti e sperano di non essere torturati dai secondini. Raggiunti i suoi, Giwar racconta come è finito là dentro. Gli viene naturale farlo, anche perché, come spesso ripeterà in seguito, “i primi ricordi della mia vita sono ricordi di prigionia”. Perseguitata nell’Iran della rivoluzione islamica, infatti, la famiglia di Giwar dovrà attraversare numerose vicissitudini tra carcere, guerra, clandestinità e torture prima di ritrovare una pace apparente sulle sponde del Reno, in Germania, nella tranquilla Bonn degli anni Ottanta, all’epoca capitale della Repubblica federale. Ma, complice la rottura dei genitori e un carattere irruento, il giovanissimo Giwar s’inventa piccolo criminale e prova a seguire la sua strada in ambito musicale, avvicinandosi al mondo dell’hip hop.
Fatih Akin è un regista di pancia che punta dritto al cuore dello spettatore; spesso ci prende, anche grazie alla rimozione dei filtri autoriali e di ogni pretesa intellettuale. La sua biografia, l’appartenenza alla seconda generazione di migranti turchi in Germania, è diventata il centro del suo cinema fin degli esordi e nei suoi film più noti, "La sposa turca" su tutti. Stavolta il regista di Amburgo si misura con un’autobiografia altrui: quella del produttore, musicista e uomo d’affari, nonché ex galeotto, Giwar Hajabi, in arte Xatar, nella quale l’apprendistato musicale, subìto fin da giovanissimo dal padre Eghbal, noto compositore, si mischia senza soluzione di continuità con quello criminale.
Nonostante in "Rheingold" siano presenti degli inserti ormai standard del canone del postmoderno, la regia di Akin resta notevolmente pulita e si mette a disposizione della sceneggiatura, da lui firmata. Una scelta felice, diremo, perché il pericoloso ottovolante senza freni né cinture di sicurezza della vita di Giwar/Xatar appassiona, nonostante qualche cliché, ai quali il cinema di Akin non è mai stato del tutto esente.
Tuttavia, il racconto è tenuto in piedi dal mistero del "Rheingold", l’oro del Reno, il quale, come narrato nella celebre opera wagneriana "L'anello del Nibelungo", se forgiato in un anello renderebbe immortale il suo possessore, a patto di rinnegare l’amore. Nel film di Akin, è la storia dell’avventata rapina messa a segno da Giwar e dai suoi sodali, che raggiunse risonanza internazionale trasformando il suo autore in un criminale ricercato in mezzo mondo. Qui, i toni un po' cialtroneschi e divertiti dentro i quali Akin plasma in "Rheingold" il suo heist movie sono perfettamente a fuoco con il suo modo di fare cinema.
Infatti, che Akin fosse il regista adatto a gestire il materiale narrativo di cui sopra è ribadito anche dalla sua vocazione a trattare la musica come un elemento consustanziale dei suoi film. Oltre al documentario musicale "Crossing the Bridge - The Sound of Istanbul" del 2005, nel già citato "La sposa turca", il dark-punk si appaiava con la musica tradizionale turca in una curiosa commistione che era poi la cifra spirituale dei suoi protagonisti, di Cahit soprattutto, esemplificata dalla spontanea catarsi di una scena live "insanguinata", in parte improvvisata dal compianto attore Birol Ünel. Con "Soul Kitchen", invece, la musica come forma estrema di libertà e il ballo come sua massima espressione entravano direttamente nella messa in scena.
In "Rheingold", la musica classica del padre di Giwar è anch’essa espressione di libertà e per questo avversata dai rivoluzionari di Khomeini, eppure, le lezioni di piano si trasformano ben presto in una costrizione per il figlio; in maniera speculare, il lavoro da compositore e direttore d’orchestra del padre è pagato bene, mentre i primi demo di Giwar non fruttano assolutamente nulla, anzi, come gli chiarisce un guru dell’hip-hop, che lui chiama Maestro, sono solo un hobby. Ma è pur vero che, mentre il padre si avvita dentro un’ipocrisia dei sentimenti e abbandona la sua famiglia, Giwar saprà aggrapparsi all’autenticità dei versi del suo personale gangsta rap per dimenticare l'oro e il suo incantesimo.
cast:
Emilio Sakraya, Mona Pirzad, Ilyes Raoul, Sogol Faghani, Ensar „Eno“ Albayrak
regia:
Fatih Akin
distribuzione:
I Wonder Pictures
durata:
139'
produzione:
Fatih Akin, Nurhan Sekerci-Porst, Herman Weigel
sceneggiatura:
Fatih Akin
fotografia:
Rainer Klausmann
scenografie:
Katja Luger, Jeannine Ullrich
montaggio:
Andrew Bird
costumi:
Katrin Aschendorf
musiche:
Ralf Kemper