Il punto di vista di "Revolution of Our Times" non poteva che essere quello della protesta. Quella dei cittadini di Hong Kong, principalmente ragazzi, contro il nuovo corso governativo che, attraverso una serie di colpi di spugna ben orchestrati, ha portato la "perla dell’Oriente" a diventare, di fatto, un’appendice cinese ammantata da un’autonomia sempre più risicata.
In particolare, oggetto della protesta del 2019, quella che andò su tutti i notiziari, anche occidentali, a causa della grandissima partecipazione popolare, fu la legge che prevedeva l’estradizione dei condannati hongkonghesi verso la Cina continentale, un chiaro modo per far assaggiare i metodi del regime ai non allineati al nuovo corso.
Proteste di piazza dalla partecipazione straordinaria, appunto, come dimostrano le prime immagini del documentario di Kiwi Chow, con l’uso dei droni a immortalare i fiumi di gente che affollavano le strade di Hong Kong. Due milioni di persone, si dice, sui sette milioni di abitanti che conta l’ex colonia britannica. Cose che si vedono raramente, ma che non scalfirono di una virgola i propositi del governo: si va dritti per la strada intrapresa e l’ipotesi di ritirare la legge sull’estradizione non viene nemmeno presa in considerazione.
Ecco allora che la protesta si divide in due. Quella che continua a rimanere pacifica e quella degli "audaci", termine che da noi evoca un significato quasi poetico, mentre nella lingua cinese ha una connotazione vagamente negativa, usato dalla stessa fazione dei pacifici (e poi dagli stessi "audaci"), per definire quei giovani che, frustrati dai mancati risultati, passarono ai metodi violenti, alle occupazioni e alla resistenza a oltranza, dando il via alla "rivoluzione dei nostri tempi".
L’escalation che ne segue vede l’inevitabile (almeno secondo la logica di regime) repressione da parte della polizia, con modalità sempre più brutali che rivelano la piega autoritaria che sta prendendo il governo di Hong Kong. Ecco quindi la prima vittima, il primo martire della libertà, morto suicida per protestare contro la repressione. I due milioni diventano così "due milioni e uno", con quell’unità destinata inesorabilmente ad incrementarsi, per effetto di altri suicidi (alcuni dei quali, però, sospettati di essere stati inscenati per porre rimedio alle morti più o meno accidentali di alcune delle migliaia di persone arrestate durante le proteste) o per effetto degli scontri e della brutalità della polizia (particolarmente scioccanti le immagini di un manifestante ucciso con un colpo di pistola sparato da distanza ravvicinata da un agente).
Man mano che il focus si sposta sugli "audaci" l’età media dei manifestanti tende a diminuire, coinvolgendo anche svariati minorenni, che si rendono parte attiva delle proteste, portando il film a riflettere – anche e soprattutto grazie alle molte interviste dei protagonisti, alcuni dei quali sostituiti da attori, con avvertenza esplicita, dopo essere divenuti irreperibili – non più soltanto sulla questione hongkonghese, ma sullo stesso disagio giovanile dei nostri tempi che trova valvole di sfogo in questi "appuntamenti con la storia". Quei giovani passionali, incoscienti, impulsivi, ai quali, in fondo, anche alcuni adulti delegano le loro speranze di cambiamento, non potendo o volendo prender parte in maniera diretta alle proteste più accese (e che non sono, ovviamente, gli adulti reazionari cantati da De André nella "Canzone del maggio": di quelli ne viene fornito un chiaro esempio raffigurando un passante, peraltro uno dei pochi occidentali che appaiono nel film, che si lamenta di come il movimento abbia arrecato danni al business degli hotel e dei ristoranti locali).
Dai droni e dalle immagini tutto sommato statiche delle proteste iniziali, si passa alle immagini dinamiche, convulse, nervose degli scontri sempre più violenti tra manifestati e polizia, catturate dalle action cam e dai cellulari degli stessi partecipanti alle proteste o dalle telecamere dei giornalisti indipendenti infiltratisi per fotografare gli avvenimenti in prima linea. Oltre che, ovviamente, alle riprese effettuate dallo stesso regista, che ha partecipato in prima persona agli eventi. L’immagine sembra dunque diventare essa stessa protagonista della protesta, lo spettatore è catapultato in prima linea, come raramente si è potuto vedere all’interno di opere documentarie, almeno a questi livelli. Il G8 di Genova del 2001 – per fare l’esempio a noi più prossimo di una situazione paragonabile – era ancora in un’epoca troppo poco social e tecnologica per restituire una mole di immagini (soprattutto di quelle girate in prima persona e in prima linea) sufficiente a trarne un’opera simile a questa (e infatti la manciata di documentari usciti sull’argomento è sicuramente meno ricordata dell’opera finzionale "Diaz - Don't Clean Up This Blood"). Ovvio, invece, che in questi tempi e in un paese ricco e tecnologicamente avanzato come Hong Kong, dove molti ragazzi possono permettersi una action cam o comunque uno smartphone di nuova generazione, è più semplice giungere a una tale mole di immagini.
Eppure, la materia prima, quella che poi consente al film di raggiungere una sua sostanza e una sua consistenza, con ben 152 minuti di montaggio finale (un montaggio che si permette anche qualche momento di pura estetica audiovisiva, come nella scena in cui vengono accostate le immagini – e il sonoro – dei manifestanti intenti a trasformare qualsiasi oggetto in strumento a percussione), è costituita, ancor prima che dai video girati, dai sei mesi di proteste forsennate e sempre più violente che hanno scosso la città asiatica. Cose che raramente si vedono nell’altrettanto tecnologica Europa e che negli Stati Uniti invece accadono più frequentemente, ma con connotazioni diverse, principalmente legate al tema razziale.
Logicamente, il fatto stesso dell’esistenza di un movimento di questa portata sta a indicare come ci si trovi sì in presenza di una deriva autoritaria, ma per l’appunto di una deriva, altrimenti le manifestazioni non avrebbero avuto così tanta eco (e una così lunga durata) e le relative immagini difficilmente avrebbero circolato con tale facilità (lo dimostrano le relativamente effimere proteste registrate in Russia per la guerra in Ucraina). Ecco allora che l’opera ha anche una funzione esplicita di appello al mondo occidentale, una funzione forse anche oltremodo accentuata, se si considera che il montaggio finale ha dato fin troppo spazio alle bandiere americane sventolate durante le proteste per attirare lo sguardo di quella nazione che evidentemente in molte parti del mondo è ancora vista come il simbolo della democrazia, l’organo di ultima istanza cui rivolgere gli appelli per la libertà (pure in un periodo in cui alla presidenza c’era Donald Trump). Un atto di apparente ruffianeria, quello del regista e dei montatori, che in realtà non fa altro che fotografare un disperato grido d’aiuto volto a rappresentare ciò che sta accadendo in un luogo che si era soliti affiancare alle moderne democrazie, quanto meno per il retaggio storico e per il grado di sviluppo economico-sociale. E invece la Hong Kong che non garantisce nemmeno il suffragio universale è sempre più sotto il giogo di quella Cina che punta a rifondare l’impero e che dopo Hong Kong ha messo nel mirino Taiwan.
Proprio a Taiwan si conclude il film, il luogo in cui i contestatori più compromessi (inevitabilmente apparsi con il volto travisato, anche digitalmente) si rifugiano dopo le proteste, manifestando un invidiabile ottimismo nelle loro prime dichiarazioni da esuli. Purtroppo, a qualche anno di distanza da quegli eventi e considerate le ultime esternazioni giunte dalla Cina, l’impressione – molto meno ottimistica – è che un eventuale, futuro documentario su Taiwan possa apparire più simile a un reportage di guerra che a un’opera di questo tipo.
regia:
Kiwi Chow
distribuzione:
Hongkongers
durata:
152'
produzione:
Hongkongers