Yoshioka è un detective della polizia di Tokyo a cui viene affidata un'indagine sulla morte di una donna che è stata trovata affogata, apparentemente in una pozzanghera, ma in realtà in acqua salata. Poco dopo lui comincia a vedere la donna vestita di rosso che ad un certo punto gli parla, accusandolo della sua morte. Gli omicidi aumentano e lui si trova in breve tempo a fronteggiare tre casi di persone morte affogate in acqua salata, ma ritrovati in prossimità di pozze di acqua dolce.
Qualcosa di serio è accaduto in un fabbricato nel porto di Tokyo, alla fine della seconda guerra mondiale, le tracce dell'accaduto giungono fino ad oggi attraverso le bizzarre morti di cui il racconto è costellato. Il detective Yoshioka si fa strada a fatica tra le sensazioni e gli indizi, senza capire quasi nulla, fino a quando un fantasma vestito di rosso comincia a parlargli. L'urlo di lei giunge da lontano, a testimonianza di un passato sepolto, ma straordinariamente vitale. I terremoti che ne annunciano l'arrivo sono anche essi ignorati, come l'urlo che la dimenticata
banshee lancia di tanto in tanto. In una città grigia e resa tetra da un racconto che viene direttamente dal lato ombra della sua storia, la donna in rosso appare, bellissima e dolente, come unico tocco di colore, e le sue stigmate sono l'acqua del porto e i terremoti. Il filo che lega gli omicidi è, in realtà, assai visibile, ma non è quello che ci interessa. Quello su cui lentamente metteremo l'attenzione è il significato della parola castigo, un ritorno dato a partire da un'azione violenta e repressiva, il solo ed unico modo per ricordare ciò che abbiamo avuto fretta di seppellire. Yoshioka è la parte di noi che non vuole vedere e che ha fretta di dimenticare, è l'emblema della nostra responsabilità nel male che facciamo ogni giorno a chi ci sta intorno, senza neanche accorgercene.
Il marchio di Kiyoshi Kurosawa c'è tutto, in primo luogo la regia è perfetta, le inquadrature sono inquietanti quanto basta a suggerire un dramma dell'anima. La scena dell'interrogatorio del padre di famiglia è da annali del cinema, tutta fuori campo e con il solo aiuto di uno specchio vediamo compiersi la tragedia della colpa. Mentre le due inquadrature dall'alto, entrambe in interno e pertanto indicative di una rivelazione inconscia, ci danno la visione del rimosso che lentamente emerge, senza drammi né clamori rappresentano quello che ciascuno di noi è dentro di sé, niente di più. L'uso dello spazio per cui il regista è giustamente famoso, è trattato qui con un taglio essenziale, la visione dell'accaduto e la sua scoperta non vengono mostrate, ma suggerite dall'uso della camera fissa che evolve in un piano sequenza, come un incubo che si stratifica ed acquisisce consistenza mentre lo viviamo.
Come sempre Kurosawa non ci spiega il perché le cose sono accadute, se siamo fortunati a volte scopriremo soltanto il come, ma le cause sono rimandate a una dimensione proiettiva che impreziosisce da sola la narrazione, stimolando il lato ombra dello spettatore. L'inquietudine di un corpo che ascende al cielo e contemporaneamente spinge un malcapitato impiccione nel profondo delle sue illazioni, nell'unica scena che concede qualcosa alla tendenza modaiola dell'ultimo cinema di fantasmi, è talmente fuori contesto da sembrare un dispetto fatto dal regista a chi lo accusa di scarsa tendenza alla divulgazione dei contenuti del suo cinema.
L'uso degli attori è accurato e il protagonista, l'irrinunciabile Kôji Yakusho, riesce da solo a reggere il contrasto tra il passato e il presente, senza mai un cedimento, e portandoci tristemente attraverso la scoperta della sua colpa e del castigo che toccherà infine anche a lui. La donna in rosso è il più bel fantasma dell'intero cinema giapponese contemporaneo, l'urlo che lancia è quello di un'intera generazione di donne vessate, la cui voce udiremo solo dopo la loro morte, dal momento che da vive mai avrebbero osato anche solo parlare. Mentre la fotografia e le luci, incentrate, la prima sul racconto del presente, e le seconde sull'emergere del passato, raccontano con sobrietà l'ennesima storia di colpa e rancore.
Kurosawa opera una scelta esattamente a metà tra la sua capacità narrativa superiore, e per molti versi ermetica, e la spinta divulgativa che opprime i cineasti asiatici della sua generazione, nel tentativo di uscire dalla frontiera di un cinema bellissimo ma comprensibile solo in parte ad un pubblico, e in alcuni casi persino una critica, che non si prende la briga di documentarsi o semplicemente di lasciarsi andare al racconto e ai ritmi interiori di cui questo si fa portatore. Come nell'ultimo Tsukamoto, anch'egli alleggerisce i contenuti rendendoli fruibili, ma rifiuta apertamente la scappatoia degli spiegoni finali, lasciando lo spettatore da solo a fare i conti con il materiale emerso nel corso della narrazione. E se pure è vero che la scelta finisce per non accontentare nessuno, siamo comunque di fronte a una tale superlativa regia da far dimenticare tutto il resto e da spingere a rivedere i magici fotogrammi che soli raccontano la storia abusata dell'ultimo cinema di fantasmi che abbia ancora qualcosa da dire.
20/06/2008