Passato in concorso al Festival di Torino e a quello di Tokyo, dove si è aggiudicato il premio del pubblico, "Red Family - Bulg-eun gajog" segna il debutto alla regia di Lee Ju-Hyoung, trentaseienne sudcoreano affermatosi in Francia grazie ad alcuni corti d'animazione.
Nella Seul odierna e occidentalizzata, due famiglie agli antipodi condividono il vicinato. La prima, genitori, nonno e figlia adolescente, appare affiatata, armoniosa e fedele alle tradizioni. La seconda, speculare ma opposta, è chiassosa, litigiosa e disfunzionale, in balia dell'immaturità della madre e dei problemi economici del padre. All'interno delle mura domestiche, però, nulla è come sembra. Dietro le apparenze idilliache, infatti, i componenti del primo nucleo famigliare si rivelano in realtà spie del regime di Pyongyang, inviate loro malgrado nella Corea del Sud per stanare e uccidere i dissidenti, mentre i caotici vicini, nonostante contrasti e recriminazioni, riescono sempre a trovare nell'amore e nel sostegno reciproco una ragione per rimanere uniti. La reciproca frequentazione, gradualmente sempre più stretta e affettuosa, riuscirà a ispirare importanti cambiamenti in tutti i protagonisti, nonostante la brutalità di una ragion di stato atroce e ottusa sembri non lasciare scampo a nessuno di loro.
Scritto dal celebre Kim Ki-duk, qui anche produttore e montatore, "Red Family" è un cupo melodramma politico che ha il merito di denunciare, almeno agli occhi di noi occidentali, sia il clima di tensione che ancora oggi persiste tra la Corea del Nord e del Sud, sia le barbarie quotidiane cui sono sottoposti gli oppositori della Repubblica Popolare. Lo testimoniano i nostri protagonisti, costretti a eliminare i loro stessi compatrioti sotto le minacce di indicibili ripercussioni nei confronti dei loro cari rimasti (in ostaggio) al Nord.
Partendo da questo spunto forte e dalle grandi potenzialità, lo script preferisce però focalizzarsi sul tema della famiglia, materia cara a Kim Ki-duk, che qui assurge a metafora esplicita di due modi di vivere e di pensare distanti ma, pare dirci l'autore, non inconciliabili.
Il film è tutto costruito sugli opposti: finzione e realtà, ideologia ed emozioni, Nord e Sud, comunismo e capitalismo, dittatura e democrazia. Tuttavia grazie all'amicizia calorosa e sincera con i vicini di casa, tutti i personaggi comprendono i vizi e l'insensatezza dei propri differenti stili di vita, andando così incontro a una trasformazione che sembra suggerire un superamento ideale, probabilmente impraticabile, del clima da guerra fredda tra i due Paesi.
L'analisi politica concede quindi sempre più spazio alle ragioni del cuore sulla dottrina di partito, al valore dei sentimenti sull'obbedienza alle regole, ma la tesi appare tanto ardita e impegnativa da appesantire irrimediabilmente il film con una serie di dialoghi e situazioni dagli intenti programmatici. Persino il percorso di maturazione dei personaggi, così fortemente tipizzati, è talmente didascalico e schematizzato da risultare forzato, privo di un'autentica spinta vitale. Basti pensare all'effetto stridente e artificioso che produce (involontariamente) il tragico epilogo, durante il quale le quattro spie rosse, prossime a una fine drammatica e ineluttabile, si stringono l'una all'altra citando a memoria, parola per parola, una delle futili liti dei vicini.
La regia sobria e senza guizzi dell'esordiente Lee Ju-Hyoung nulla può per risollevare le sorti di un film a tesi ambizioso e inerte, su cui grava l'aura ingombrante di Kim Ki-duk, che vorrebbe cantare la forza dell'amore ma non riesce a raggiunge il minimo pathos.
cast:
Kim Yu-mi, Son Byung-ho, Jung Woo, Park So-young
regia:
Lee Ju-Hyoung
titolo originale:
Bulg-eun gajog
durata:
99'
produzione:
Kim Ki-duk Film
sceneggiatura:
Kim Ki-duk
fotografia:
Lee Chun-hee
montaggio:
Kim Ki-duk, Kim Heuk
musiche:
Choi In-young