Il ritorno del ritorno di Zack Snyder. Si potrebbe definire così "Rebel Moon – Parte 2: La sfregiatrice", d’altronde la seconda metà dell’opera con cui il regista statunitense è tornato alla sua usuale, discutibile, grandeur produttiva e al suo solito cattivo rapporto con la critica, come già sottolineato recensendo la prima parte del dittico. "Scargiver" è difatti un’estensione e un completamento di quanto visto nel film precedente, certificando quanto la duologia space opera di Snyder sia da considerare come effettivamente un’opera singola, divisa per questioni tecniche (ci si è già dovuti sorbire quattro ore di trionfo snyderiano con "Zack Snyder’s Justice League", non un’esperienza adatta a chi è debole di cuore) e, forse, commerciali. L’ambizione di questo film, che non a caso si contraddistingue per un finale quasi più aperto di quello della prima parte, è infatti quella di porre le basi per un nuovo, ennesimo, universo mediale, di cui un’altra, ennesima, trilogia di film (o eventualmente doppi film) faccia da cuore e motore, mentre videogiochi, serie animate, fumetti e molto altro la espandono progressivamente, secondo uno schema che ormai abbiamo modo da apprezzare da più di 40 anni.
Ma, per quanto i suoi meriti cinematografici non siano forse la sua caratteristica più evidente, non va dimenticato che "Scargiver" è anche, anzi, in primo luogo, un film, un oggetto audiovisivo dai tratti ben definiti e che va visto semmai in prospettiva solo del capitolo precedente, di cui è il letterale complemento, come già scritto. Sebbene non manchino differenze fra le due pellicole a livello di struttura e tematiche, queste servono in primo luogo a far risaltare la natura molteplice del progetto "Rebel Moon", la cui prima parte, rapida fino e oltre i limiti della frettolosità e schematicamente divisa in sezioni, si contrappone invece alla più equilibrata e fluida seconda metà, d’altronde ambientata quasi interamente nella piccola luna agricola di Veldt dove la resistenza ai soprusi del Mondo Madre si organizza. Esasperando i riferimenti al modello "I sette samurai", Snyder costruisce "Scargiver" intorno alla dialettica fra la comunità rurale e pacifica di Veldt e la combriccola di sconfitti e disadattati riunita nel primo film da Kora e Gunnar, e alla loro reciproca capacità di influenzarsi e apprendere gli uni dagli altri, contrapponendosi così all’omogeneità e alla separatezza, anche estetica, delle truppe dell’Imperium.
Proprio la progressiva commistione fra la "sporca mezza dozzina" di mercenari arrivata in soccorso di Veldt e gli abitanti del posto permette al regista di approfondire non solo i nuclei tematici centrali in "Rebel Moon", in cui prevale una visione organicista e fluida della società, ma anche di dedicare ampio spazio agli elementi stilistici ricorrenti del proprio cinema. Che si tratti infatti di abitanti e combattenti insieme che falciano il grano o che si addestrano per la resistenza disperata del loro villaggio "Scargiver" riserva a entrambi i contesti un florilegio di montage sequence, ralenti e lens flare, con un’intensità e frequenza che forse non hanno eguali nemmeno all’interno della produzione del regista che si è fatto ormai alfiere di questi stilemi. Perché quello che interessa a Zack Snyder, e dopo il dittico "Rebel Moon" dovrebbe essere addirittura più evidente, è in primo luogo l’enfasi del singolo gesto, il ricorso a quanti più elementi stilistici e retorici possibili per rendere anche il gesto più banale quanto più iconico e intenso, in un’esasperazione stilistica che dilata lo spazio e il tempo per cercare di restituire visivamente l’intensità dell’emozione che si presume sia provata in quel momento dalla persona immersa nell’atto.
Alla luce di "Scargiver" si potrebbe addirittura arrivare a sostenere che il tripudio di ralenti, muscoli tesi, laser multicolori e fumi vari delle intense scene di battaglia che occupa quasi interamente la seconda metà della pellicola non sia più rilevante, all’interno della poetica del regista californiano, della corale mietitura del grano o della festa per celebrare la fine del raccolto, ambedue categorie di sequenze rappresentate con la medesima enfasi. In attesa quindi che Snyder decida di realizzare un giorno un’opera completamente realistica e lontana dal clamore di battaglie e duelli per avere definitiva conferma di questa speculazione, non resta che segnalare quanto la rilevanza della seconda parte di "Rebel Moon" nella produzione del regista, in quanto mai come qui l’enfasi sul singolo gesto, sul minuscolo dettaglio, ha rimarcato la natura prettamente performativa dei mondi creati da Snyder e delle azioni dei loro protagonisti in essi. Ogni atto che i protagonisti di "Rebel Moon" compiono non va infatti slegato dalle sue implicazioni e dalla rilevanza che ha per il personaggio che lo compie nella costruzione della propria identità, la quale va anche per questo motivo intesa come un flusso continuo di trasformazione e adattamento.
Dal giovane soldato traditore dell’Imperium Aris che recupera il suo vecchio vestiario, e atteggiamento, solo per le comunicazioni con gli ex-commilitoni ai "seven samurai in space" che cambiano mise quando si immergono nella vita agricola di Veldt, per poi adottare nuove divise per la battaglia finale, ogni azione, anche la più irrilevante, va a costituire l’identità di chi che la compie, costruzione che viene esaltata proprio dallo stile enfatico e volutamente ridondante di Snyder. Più vicino al linguaggio dei videogiochi e dell’animazione che a quello del cinema live action realistico, la produzione di Zack Snyder fa di colori, vestiti, tagli di capelli e tatuaggi una componente fondamentale dell’identità dei personaggi che li portano, mai una semplice occorrenza casuale, come si evince anche dall’esempio dell’ammiraglio Noble, il quale ricostruisce la sua identità di fanatico supersoldato revenant attorno alla, casualissima, ferita che gli è rimasta sul corpo dopo la lotta con la Sfregiatrice Kora. Fanno parte del medesimo impianto discorsivo e stilistico anche i lunghi flashback coi quali viene (finalmente) fornito un background ai vari protagonisti della pellicola, dando loro motivazioni e connotazioni nell’esplicita forma di monologhi molto sentiti che divengono veri e propri reenactment di ciò che ha portato loro a Veldt, ribadendo ancora il focus sulla performatività dell’identità nel cinema di Snyder.
Ed è così che riagendo il passato (Kora che si taglia i capelli per tornare a essere com’era prima dell’efferato atto che l’ha resa la persona più odiata della galassia) i protagonisti di "Rebel Moon" possono rimettere in scena, e in discussione, quanto fatto, e costruire così una nuova identità, come testimonia anche la sequenza in cui alla "sporca mezza dozzina" vengono consegnati dalla paesana Sam gli stendardi che rappresentano le loro identità rinnovate, ora che sono entrati a far parte della comunità di Veldt. È curioso che questo elemento ottenga una simile importanza in un film che ha l’ambizione di farsi "pellicola di retroterra", indirizzata a fornire a un ipotetico universo audiovisivo un intero background, costruendo così un’identità anche per il progetto "Rebel Moon", di cui si spera, nonostante tutti gli evidenti difetti di "Scargiver", e ancor più della prima parte, di vedere a questo punto gli sviluppi. La speranza è che quanto seminato in questo imperfetto e discontinuo dittico di film (in attesa di vedere l’ormai immancabile director’s cut) possa dare linfa al nuovo progetto di Zack Snyder, un progetto che come tutti i lavori del regista avrà sicuramente i suoi detrattori e le sue criticità ma anche i tratti, ormai così ben definiti, di una precisa visione di mondo e di cinema. E, perlomeno in questo, non si può negare che "Rebel Moon" sia stato, a modo suo, un successo.
cast:
Sofia Boutella, Djimon Hounsou, Michiel Huisman, Ed Skrein, Doona Bae, Staz Nair, Elise Duffy, Anthony Hopkins, Ray Fisher, Fra Fee, Stuart Martin, Cleopatra Coleman, Ingvar Eggert Sigurðsson, Alfonso Herrera, Sky Yang, Charlotte Maggi
regia:
Zack Snyder
titolo originale:
Rebel Moon - Part Two: The Scargiver
distribuzione:
Netflix
durata:
122'
produzione:
The Stone Quarry, Grand Electric
sceneggiatura:
Zack Snyder, Kurt Johnstad, Shay Hatten
fotografia:
Zack Snyder
scenografie:
Stefan Dechant, Stephen Swain
montaggio:
Dody Dorn
costumi:
Stephanie Portnoy Porter
musiche:
Tom Holkenborg (Junkie XL)