C'è una canzone di Umberto Tozzi, scritta insieme a Giancarlo Bigazzi e presentata a Sanremo, "Gli altri siamo noi" si intitola, che a un certo punto dice "siamo tutti vittime e carnefici". Cosa c'entra col film? Cercherò di spiegare, certamente più di quanto c'entri il film con il cinema. Su questo, non lasciatevi ingannare dal titolo, non ci sono dubbi.
Legal thriller o
crime story o come si diceva una volta poliziesco, può andar bene per la televisione, poteva essere semmai allungato e poi diviso in più puntate, ma niente a che vedere col cinema.
Persino la scena di maggior pathos è stata montata male. La donna è sola, braccata dall'assassino, lascia il bicchiere d'acqua mezzo pieno - anzi, decisamente mezzo vuoto - poggiato accanto al lavello, e scappa, la donna, mentre l'assassino entra in cucina, e il bicchiere per magia è pieno fino all'orlo. Eppure l'idea di partenza - per quanto già vista - sarebbe anche buona, tenendo conto che il genere è talmente "saturo" da lasciar poco spazio per spunti originali. Ma questo non giustifica una sceneggiatura banale e peggio ancora tirata via, che è un affronto in crescendo all'intelligenza media.
Il vero lato positivo è la brevità. Meno di un'ora e mezza, al netto dei titoli di coda, vale mezzo punto in più nel voto complessivo. Non c'è immagine, o sequenza, o musica, o interpretazione, che valga la pena di essere ricordata. Tutto da manuale, a cominciare dall'ambientazione: tra New York, Detroit e Chicago, è il turno di Chicago. I colpi di scena fioccano senza sorprese, accompagnati da una colonna sonora scolastica e da un uso didascalico del colore. Un "assistenza cromatica" che ci guida fin dal bianco accecante d'apertura, i bambini che giocano a palla sulla neve, l'innocenza contrapposta alla notte, alle strade buie, sporche, al grigiore perenne del cielo, gli interni asettici del dipartimento di polizia, il cementificio abbandonato.
Il protagonista è bianco, l'antagonista nero. Le interpretazioni dei due piatte, e i ruoli secondari - vedi la detective o il fratellastro del protagonista - acquistati a stock dal database di "Dexter" o "Csi".
Ho una personale passione per Samuel L. Jackson, ma stavolta anche lui proprio non funziona, in "
Django Unchained" sì che quel "motherfucker" impresso sul portafoglio di Jules ("
Pulp Fiction") ci sarebbe stato bene, perché in Django Jackson è perfido e laido e noi spettatori siamo disgustati ma d'accordo, mentre qui proprio non ci crede nessuno che sia un serial killer, e imprendibile poi. Non ha niente a che spartire coi modelli criminali di Seven (Detroit), o de I Soliti Sospetti (New York), né con l'esemplare doppiogiochismo per dirne uno di Edward Norton in "Schegge di Paura" (Chicago).
Mitch Brockden (Dominic Cooper) è un giovane padre e procuratore rampante che una sera alza il gomito e investe un uomo. Dopo aver chiamato l'ambulanza fugge e il giorno dopo scopre che per l'omicidio di quell'uomo è stato arrestato Clinton Davis (Samuel L. Jackson) che stava trasportando il cadavere nel furgone. Penso ancora che l'idea di partenza sia già vista, ma buona. Mitch è incaricato di sostenere l'accusa contro Davis, cioè far condannare una persona che lui solo sa essere innocente. Il primo colpo di scena scagiona Davis e libera Mitch dal fardello del senso di colpa. Ma dura poco e la situazione si ribalta. Davis è davvero innocente? E' una vittima innocente del caso o il carnefice insospettabile di una serie di atroci delitti? E Mitch? Da carnefice colpevole di omissione di soccorso si ritrova vittima di una persecuzione che è un crescendo di scempiaggini, fra trafugamenti, telefonate, minacce ridicole, fino alla resa dei conti finale, ma che soprattutto dimostra quanto detto in principio: sono tutti vittime, e carnefici (Tozzi-Bigazzi).
Compresa la detective Blake Canon (Gloria Reuben), fino a dieci minuti prima convinta della colpevolezza di Brockden, cioè vittima del raggiro di Davis, e adesso braccio armato - e carnefice - della giustizia (un'oscillazione fra bene e male che spiega perché la detective sia mulatta). Samuel Jackson sta per compiere vendetta e impartire la sua folle lezione alla famiglia riunita, quand'ecco che arriva il colpo, lo stavamo aspettando, il colpo da fuori campo, ed eccola ora inquadrata in tutto il suo tempismo, e la sua rinnovata integrità, la detective. Così, mentre il lieto fine si consuma sul portico dei Brockden, ho pensato che Howitt (che ha firmato il film con lo pseudonimo Crouding, chissà perché) deve aver insistito parecchio per concludere diversamente, e che il colpo di pistola della detective sia stato un dictat di produzione, a cui non ha potuto opporsi in nessun modo, come dire un po' vittima anche lui, Howitt/Crouding, non soltanto carnefice.
10/03/2014