È un fatto piuttosto singolare che due diverse pellicole, a distanza di qualche mese l'una dall'altra, riferiscano due storie vere, contraddistinte da alcune affinità storiche e tematiche, ma dagli sviluppi letteralmente rovesciati. Parliamo di "
12 anni schiavo", in cui Steve McQueen narra la drammatica odissea di Solomon Northup, un cittadino libero venduto come schiavo con l'inganno, e di questo "La ragazza del dipinto". Ambientato circa ottant'anni prima, il film racconta l'infanzia e la giovinezza della mulatta Dido Elizabeth Belle che, da bambina, dopo la morte della mamma nelle Indie Occidentali, si sottrae a un futuro di violenza e asservimento grazie al riconoscimento del padre naturale, ufficiale della Marina britannica. Costui la conduce in Inghilterra e la affida alla famiglia dello zio, Giudice capo della Corte suprema, catapultandola di punto in bianco nell'alta società inglese. Con modi e stili diversissimi (e l'evidente superiorità del primo), entrambi ci pongono difronte alle imprevedibili, e spesso tremende, stranezze del fato, e al contempo fotografano una delle pagine più vergognose dell'imperialismo occidentale, mettendone in luce aspetti rilevanti, ma - com'è naturale da punti di vista contrari - molto dissimili. Mentre infatti McQueen, proseguendo un articolato discorso sulla prigionia e il ventaglio delle sue possibili manifestazioni, prende in esame direttamente gli effetti fisici e psicologici della schiavitù su un personaggio "rubato" alla propria libertà, "Belle" coglie l'occasione per ritrarre le logiche e i primi timidi sommovimenti (in linea con la temperie illuminista) di una compagine sociale che della schiavitù e del razzismo si è servita per costruire gran parte del proprio potere economico.
Scritta rispettando una progressione rigorosamente cronologica, la sceneggiatura, spina dorsale di una biografia abbastanza verbosa, pur non brillando per originalità, coglie con sufficiente efficacia la maturazione della protagonista, affiancandola a un'accurata ricostruzione storica. Il punto di vista non può essere che femminile e per le donne di ceto aristocratico, obbligate ad esimersi da qualsiasi impiego lavorativo, l'assillo più pressante è la dote, un lasciapassare per il mondo adulto che le rende appetibili agli occhi di qualche gentiluomo con cui immediatamente sistemarsi. Lo imparano a proprie spese sia Dido, cui la prematura dipartita dell'amato genitore porta una cospicua rendita, che sua cugina, abbandonata senza un soldo da un padre incosciente che si è trasferito all'estero con un'altra famiglia a carico. Il gioco oppositivo tra le due affiatate sorellastre, una ricca ma disdicevole per il colore della pelle, l'altra, purosangue ma squattrinata, funziona bene perché incrina dall'interno gli equilibri di un quadro familiare tradizionale in tutto e per tutto, conducendo la vicenda alle svolte più interessanti. Di fatti dà il via al percorso formativo della protagonista, che, spronata dalle parole ambiziose di un giovane e illuminato avvocato, non solo comincia a interessarsi alle proprie origini e alle sorti drammatiche del suo popolo, ma capisce di doversi affrancare dalle soffocanti convenzioni sociali, schiavizzanti a loro volta, per agire autonomamente, seguendo cuore e coscienza.
Cimentandosi dunque con le dinamiche classiche del film in costume, Amma Asante, al suo secondo lungometraggio, supportata da interpreti di pregio, è capace di modulare dai toni delicati e austeniani della prima parte ai toni più gravi, vicini quasi al dramma processuale, del secondo frangente, dove a farla da padrone è la triste vicenda del massacro della Zong (la nave su cui persero la vita centoquarantadue schiavi africani, uccisi dai loro commercianti per intascare il denaro dell'assicurazione). Anche sul versante figurativo, attinge con correttezza alle fonti pittoriche e iconografiche, adottando delle soluzioni luministiche e di messa in quadro che richiamano evidentemente i soggetti e le atmosfere del naturalismo romantico inglese (con una particolare predilezione per il genere dei
conversation pieces). A mancarle però è la giusta dose di personalità registica, indispensabile per dare spessore e tempra espressiva all'affresco. Non le resta, allora, che affidarsi alla patina ingessata di una messinscena assai tradizionale e ricorrere ai soliti climax sentimentali e alle canoniche chiose di un melenso e invasivo accompagnamento musicale per condurre la vicenda al suo debito lieto fine. Un peccato: aveva la possibilità di far uscire un bel film da quella che invece rimane (solo) una bella storia.
31/08/2014