Portare sullo schermo un romanzo di un autore famoso e controverso come William S. Burroughs aveva come contropartita il rischio di essere fagocitato dalla bravura di uno scrittore che dopo la morte ha visto la sua fama crescere a dismisura fino a diventare il parametro per misurare il livello di trasgressione di un’opera artistica. Prima di entrare nel merito del nuovo film di Luca Guadagnino è importante sottolineare come nelle opere di Burroughs arte e vita costituiscono in egual misura la spinta che ne guida la visione e, dunque, come i suoi libri, non possano prescindere dalla presenza del dato autobiografico e dalla sua trasfigurazione.
Quando Guadagnino in sede di presentazione del film afferma che “Queer” è la sua opera più personale, quella che ne riflette maggiormente la persona, non fa solo un'affermazione glamour, fatta apposta per soddisfare la curiosità dei media da sempre smaniosi di speculare sulla vita del famoso di turno, ma entra nel merito dell’opera ancora prima della proiezione con una dichiarazione di intenti che ci aiuta a capire la genesi del film e la sua urgenza.
La sequenza iniziale per come è girata ci lancia più di un indizio. La ripresa a piombo su una varietà di oggetti personali disposti sul materasso, solo in apparenza in maniera casuale (tra questi una macchina da scrivere, una rivoltella, vari tipi di occhialini), altro non è che l’escamotage utilizzato dal regista per tracciare una sorta di mappa esistenziale e artistica, capace di riassumere in un solo colpo il personaggio, di William Lee e il suo demiurgo, William Burroughs. Ma non basta, perchè lavorando sul fuori campo e, dunque, evitando di visualizzare il collegamento tra oggetto e soggetto, Guadagnino fa del corpo il centro della sua ricerca, come se “Queer”, con il pretesto di raccontare le vicissitudini di un transfuga americano alla ricerca del piacere nella Città del Messico degli anni 40, non faccia altro che ragionare sulla maniera di conciliare la presenza del corpo (ritrovato) con le aspirazioni di un’esistenza riassunte da quegli oggetti. A confermarlo, nella scena che decreta la fine del viaggio e anche la conclusione del film, sono non solo la presenza dei corpi sul medesimo letto (di Lee/Burroughs e del suo amante), ma anche la risposta alle domande del protagonista e dello stesso Guadagnino (se sono vere le sue dichiarazioni) costretti a fare i conti dopo un percorso lungo e periglioso con l’inconciliabilità tra carne e spirito ("I'm not queer, i’m disembodied”, dichiara più volte William Lee nel corso del film) come dimostra la natura fantasmatica dell’amante che abbraccia per un’ultima volta il suo mentore.
D’altronde che “Queer” sia un romanzo, e soprattutto un film autobiografico, lo dimostra la scelta di Guadagnino che non a caso sceglie di tradurre in immagini il romanzo che, pur contenendo alla pari degli altri stilemi e luoghi tipici della poetica dello scrittore americano, si concentra soprattutto sulla condizione omosessuale e sulle dipendenze e i tormenti che essa comporta. Se “Il pasto nudo” era il racconto allucinato e allucinante del mondo di un tossicodipendente in cui la diversità sessuale entrava in gioco per contribuire a una storia di cospirazione e controllo popolata di spie e agenti segreti, “Queer” sgombera per un attimo il campo dalle fantasie più spinte e surreali tipiche dello scrittore americano per raccontare in maniera quasi classica il percorso di consapevolezza del protagonista attraverso la storia d’amore tra Lee e il giovane studente di cui rimane ammaliato.
Ed è proprio il film di David Cronenberg a fornire il termine di paragone per capire quello di Guadagnino, perchè se “Il pasto nudo” era un film dove la parola si faceva carne, “Queer” si comporta all’esatto contrario partendo della carnalità del corpo, quello di Allerton (interpretato da Drew Starkey), come unico oggetto del desiderio, per arrivare in qualche modo alla sua negazione e dunque a quel “diesembodied” che più volte affermano i personaggi di “Queer”. In questo senso il film, al di là delle didascalie volte a introdurre i capitoli del racconto, si può considerare attraversato da uno scarto di senso che ancora una volta dipende dalla funzione del corpo, con la prima parte occupata dai “cruising" di Lee, impegnato ad andare a zonzo per i locali gay della metropoli in cerca d’amore e proseguita dal tentativo del protagonista di omologare la relazione con Allerton, e la seconda, caratterizzata dal viaggio nella giungla sudamericana in cerca di un potente allucinogeno in cui l’azione fisica è destinata a sostituire quella sessuale in un contesto in cui il corpo assume una dimensione sempre più fantasmatica.
Ciò che stupisce nel film di Guadagnino, al di là di quanto abbiamo detto, sono soprattutto le scenografie che ricreano Città del Messico. Guadagnino da par suo le riprende con una fotografia iperreale facendo della loro bidimensionalità il segno di una rappresentazione più ideale che reale, frutto della continua alterazione della percezione vissuta dai protagonisti. A differenza di Cronenberg, a suo tempo costretto dalla guerra a girare in studio anziché a Tangeri, Guadagnino con il suo cinema così controllato e algido sceglie con coerenza di ricreare la sua Città del Messico negli studi di Cinecittà realizzando un’opera nell’opera, allorché non solo si permette di lanciarsi in panoramiche della sua creazione risultando altrettanto veritiero (di solito in casi analoghi la mdp tende a restringere il campo) ma non rinuncia a mappare la città proponendone scorci e sobborghi capaci di restituire la magia del cinema a un livello raramente visibile in un’opera indipendente come lo è quella di Guadagnino.
Conscio di essere uno dei registi più alla moda, il nostro sfrutta il momento consentendosi di spaziare tra generi e argomenti grazie a un dispositivo capace di intercettare tendenze e spirito del tempo con un cinema che non rinuncia alla bellezza dei singoli elementi. La perfezione con cui Guadagnino si preoccupa di metterli in scena ha il neo di togliere energia e pathos all’urgenza del suo racconto. Inserito nel concorso ufficiale dell’81ma Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, “Queer” propone la coraggiosa interpretazione di Daniel Craig tra quelle meritevoli per il premio di categoria.
cast:
Daniel Craig, Drew Starkey, Jason Schwartzman, Lesley Manville, Henry Zaga
regia:
Luca Guadagnino
distribuzione:
Lucky Red
durata:
135'
produzione:
Fremantle; The Apartment; Frenesy Film Company
sceneggiatura:
Justin Kuritzkes
fotografia:
Sayombhu Mukdeeprom
scenografie:
Stefano Baisi
montaggio:
Marco Costa
costumi:
Jonathan Anderson
musiche:
Trent Reznor, Atticus Ross