Tre storie che si incrociano senza avere la consapevolezza di farlo. Lo svolgersi della vita nella separazione dall’altro. Scorci di vita impregnati di dolore e la muta consapevolezza di un'esistenza che non ti appartiene. Uomini e donne come uomini e topi. Jean Paul (JH Anglade), giornalista in crisi che passa le sue giornate visitando siti porno, Eeva (Laura Malivaara), hostess taciturna che si accontenta della compagnia di un vecchio professore e rifiuta le avance dei suoi corteggiatori, Maddalena (Maya Sansa), pittrice disinibita che si spende tra incontri occasionali e lezioni ad una bambina innamorata dei suoi quadri, sono facce diverse della stessa paura. Una condizione che annulla le distanze geografiche (Parigi, Helsinki, Roma) e li accomuna nel riversare le tragedie personali su un presente che ha perso qualsiasi slancio emotivo e si esprime attraverso il rifiuto degli altri esseri umani. Coazioni a ripetere fino al punto di rottura, quando viene meno il simulacro che confonde il vero nome delle cose.
Un punto di non ritorno che ha i colori indistinti della notte (l’incontro di Paul con la prostituta minorenne, i ladri che violano il sonno di Maddalena, l’esperienza di Eeva rivissuta durante il viaggio nei luoghi che le hanno rubato il coraggio di vivere) ed il sudore di un emozione che ritorna in superficie.
Anne Ritta Ciccone gira con coerenza, articolando la storia in un unico segmento, in cui le vicende hanno il respiro di un battito d’ali e si riversano una sull’altra in una condizione di perenne sospensione, continuamente spezzate da elissi che assomigliano a fendenti sferrati sui volti dei protagonisti. Alle prese con una storia di solitudine e di dolore, la regista è brava nella costruzione di atmosfere che sfruttano al meglio le suggestioni del paesaggio e l'immediatezza della sintesi (il tuffo in piscina o una nuotata nel lago che concludono le vicende di Paul ed Eeva sono il segno di una liberazione che viene annunciata attraverso la bellezza di quelle immagini), mentre mostra le corde quando deve far procedere la storia, appesantendo il film con spaccati di sociologia (soprattutto con il frammento ambientato a Roma, quello meno riuscito, con la borgata che fa capolino con gli stereotipi di un razzismo da pagina di giornale) che pagano il dazio ad un autorialità necessariamente impegnata e qui espressa dall’apologia antifascista di Remo Remoti, mitica figura del cinema Morettiano e dall’apparizione di Sergio Citti, campione di pasoliniana marginalità, nella parte del suo compagno di bevute.
06/07/2009