Ben prima dell'abbagliante successo di "
Gomorra" e della conseguente (meritatissima) consacrazione autoriale, Matteo Garrone si era fatto conoscere nell'ambito cinematografico (degli addetti ai lavori, ma non solo) attraverso un paio di opere decisamente interessanti, laddove il suo mondo (che si trattasse di stile, di contenuti, di storie, di personaggi) già manifestatosi in nuce nelle altrettanto meritevoli pellicole d'esordio, si era ulteriormente affinato e delineato fino ad assumere connotati peculiari, inconfondibili, in attesa magari soltanto di alzare ancora il tiro e confezionare direttamente un capolavoro (cosa che appunto poi sarebbe inevitabilmente successa).
Così, prima "L'imbalsamatore" e poi questo "Primo amore" erano già portatori sani in tutto e per tutto del cinema garroniano, fatto di vicinanze, legami, intimità quasi maniacali e ai limiti della morbosità con i propri personaggi, fatto di ambientazioni fredde, vuote, rarefatte, fatto di storie depurate da qualsiasi orpello narcisista e scarnificate nella loro narrazione fino all'osso, fino alla polpa, fino all'estremo. Fatto (soprattutto) di storie nere, nerissime, spesso e volentieri prese pari pari dalla cronaca quotidiana e riadattate in sede di sceneggiatura nella minima maniera possibile, per evitare qualsiasi tentativo di smussamento e lasciare che l'essenzialità della vicenda ci mostrasse i suo angoli a dir poco duri e spigolosi.
La storia di "Primo amore" (un orafo che costringe la sua fidanzata a dimagrire in maniera progressiva e instancabile, fino a renderla quasi uno scheletro umano) è difatti difficilmente comprensibile a chi non abbia bene in mente cosa è per l'appunto il cinema di Garrone. Il personaggio di Vittorio, inquietante anche solo dall'apparente sguardo imperturbabile che mostra sin dalla prima inquadratura, potrebbe sembrare difatti così violentemente divorato dalla sua ossessione da essere fin troppo grottesco, se non fosse che egli non è che l'alter ego neanche tanto codificato dell'attore protagonista stesso, un Vitaliano Trevisan autore sia del libro da cui la storia è ispirata sia (assieme a Garrone stesso) della sceneggiatura. Quindi questo "travasamento" così totale dell'autore nel personaggio non fa altro che creare un contocircuito assoluto fra realtà e finzione, e rende Vittorio/Vitaliano un essere totalmente credibile nella sua assurdità (cosa che tra l'altro accade alla perfezione anche col Peppino de "L'imbalsamatore" o con molti persone/personaggi di "Gomorra").
È sostanzialmente questo il punto di forza del lavoro di Garrone: far aderire così tanto la storia (finta) alle persone (vere) che questa vi si appiccichi come carta moschicida e li avvolga come una seconda pelle (lo stesso Trevisan, alla fine delle riprese, si è innamorato realmente della bella e bravissima Michela Cescon). Non a caso lo stile di recitazione, anch'esso tipico dei film del regista romano, non è altro che una diretta conseguenza di questo approccio così totale e viscerale: non c'è traccia di "recitato" nei dialoghi, nelle espressioni, nelle cose dette e non dette dai protagonisti del film (se non in alcune battute evidentemente un po' forzate); più che parlare biascicano, sussurrano, si interrompono a vicenda, più che ripetere un copione improvvisano su una (esilissima) linea generale.
Ovvio, quando alla base di tutto c'è solamente la volontà di raccontare nella maniera più esplicita possibile la storia di un amore impossibile, letale, autodistruttivo, più Tanathos che Eros senza ombra di dubbio, in cui ogni parola superflua o tantomeno qualsiasi accenno di spiegazione o giustificazione avrebbe solamente finito col rovinare tutto (perché Vittorio vuole modellare il corpo di Sonia a suo piacimento? Non basta il paragone col suo mestiere, e il parallelo con la cesellazione dei metalli, per costruire un motivo plausibile, così come neanche l'eventuale richiamo filosofico al voler "raschiare via il superfluo per arrivare all'essenziale").
La tenacia così efferata e determinata dell'uomo da una parte e l'arrendevolezza così spontanea e innamorata (ma destinata a scoppiare prima in pianti, poi in scenate di fame isterica, poi fatalmente in gesti irreparabili) della donna dall'altra non fanno che lasciarci per tutto il tempo stranamente interdetti e ammaliati al tempo stesso da questo perverso gioco al massacro.
L'occhio della macchina da presa di Garrone di consequenza è più "epidermico", più concentrato cioè sulla pelle, sui corpi, sulle ossa (allucinante pensare alla prova fisica della Cescon che è realmente dimagrita di una ventina di chili durante le riprese del film) che, come in altri film, sullo spazio geometrico e desolato che li accoglie; le inquadrature sono più contemplative (ma sempre con un gelido distacco) che compulsive e nervose; la fotografia è più nitida e chiara, come se sottolineando le forme si arrivasse per reazione a evidenziarne la loro effettiva incosistenza.
Non a caso una delle scene più significative del film è quella in cui la coppia, attraversando in barca un lago, riflette su quello che sta facendo: i visi sono in primo piano ma totalmente fuori fuoco, ridotti a macchie di colore, ad aloni dai connotati difficilmente riconoscibili, nient'altro che inconsapevoli fantasmi.
22/05/2009