"Prima danza, poi pensa" è una frase che Samuel Beckett avrebbe rivolto a un giovane che assisteva a una delle sue commedie più note e più criptiche: "Aspettando Godot". E fin dall’esordio il biopic di James Marsh è tutto nel segno del teatro beckettiano: all’interno del teatro di Stoccolma, il protagonista, dopo un enigmatico "Che catastrofe!" si alza dal suo seggio di spettatore e si avvia verso il palcoscenico, ma anziché ritirare il Nobel si inerpica per una struttura laterale e scompare alla vista degli astanti. Lo stacco successivo ce lo mostra all’interno di una scarna scenografia costituita da una caverna semilluminata all’interno della quale inizia un vero e proprio dialogo in campo/controcampo con il proprio alter ego, che lo invita a ripercorrere una sorta di viaggio attraverso la vergogna.
Piuttosto che limitarsi, come in "La teoria del tutto" (2014) o "Il mistero di Donald C." (2018) al compitino di narrare per filo e per segno la biografia del protagonista, Marsh avvicina lo spettatore al drammaturgo irlandese scegliendo un intreccio che rispecchi i modi e lo stile del teatro beckettiano. Così, già dall’incipit vi è un esempio del provocatorio teatro dell’assurdo, in quanto si passa da un fatto biografico (la consegna del Nobel nel 1969) alla successione di tre "atti", veri e propri flashback sulla vita di Beckett, che costituiscono la parte anteriore della fabula raccontata solo alla fine, quando con il quinto "atto" lo spettatore viene riportato nella narrazione al presente.
Tutto il film si configura dunque come una potente requisitoria condotta dal protagonista sulla propria esistenza: "Questo sarà un viaggio attraverso la tua vergogna" gli sussurra il suo alter ego. Marsh immagina un Beckett che mette in scena sé stesso, e per giunta con uno stile che molto ricorda del suo teatro: la battuta iniziale, ex abrupto, "Che catastrofe!" è una citazione indiretta di "Aspettando Godot", in cui Estragone esclama "Niente da fare!". Le parole di entrambi sono il portato verbale di personaggi dal fare trasognato, in perenne dialogo con sé stessi, più che in contatto umano con un interlocutore. La solitudine, l’incomunicabilità, l’incapacità di condividere un orizzonte ideale comune sono gli altri ingredienti del Beckett marshiano. Le inquadrature che ritraggono i lunghi silenzi del protagonista nei campi medi rendono ancora più isolata e alienata la sua figura, equiparandola ai ritratti di Popper.
C’è da dire, inoltre, che dati i pochi e scarni dialoghi, il film vive molto della dimensione pittorica, evidente nelle ambientazioni in interni che prediligono le atmosfere di un Velasquez, o quelle in cui la luce ha una propagazione lattiginosa e nebbiosa che non si traduce in una maggiore luminosità. Il tutto allo scopo di rimarcare la dimensione solipsistica del protagonista.
I quattro flashback, dal titolo "Madre", "Lucia" , "Alfy" e "Suzanne" si soffermano sulle persone che hanno avuto maggior peso nella vita di Beckett. Il taglio non è biografico, storico-narrativo, bensì psicanalitico, rievocativo, tanto che di alcuni momenti, come la militanza nelle file della resistenza francese, sono solo accennati e la narrazione è debole proprio in coincidenza con un contesto storico ben determinato. Date e luoghi passano del tutto in secondo piano laddove si predilige affondare il bisturi nel passato per tentare di discernere i tormenti del presente. Nel primo flashback, ad esempio, il rapporto con la madre narcisistica e oppressiva è alla base dell’inquietudine del protagonista nell’ultimo degli "atti", quello intitolato "La fine".
Nel secondo flashback la relazione tossica con Lucia, la figlia di James Joice, sembra più il pretesto per accostare i due scrittori irlandesi. Joice, a sua volta, viene sommariamente ritratto, ma nelle rare occasioni in cui parla funge da mentore allo spettatore, giacchè gli fornisce la chiave di lettura del film: "Ciò che importa non è ciò che scriviamo, ma come". Un consiglio, un’allusione, insomma, alla necessità di guardare il film con l’habitus di chi è seduto a teatro. Ecco la prova del fatto che Marsh osa, e a ragion veduta, molto più che nelle sue opere presedenti.
Nel terzo flashback, incentrato su Alfred Peron, la morte dell’amico catturato dalla Gestapo è anch’essa una delle radici profonde dell’inquietudine del Beckett maturo. In quello intitolato con Suzanne, l’infermiera che ne diventerà la moglie di Beckett, la presenza dell’alter ego si fa sempre più frequente, fino a diventare una sorta di compagno scomodo, ossessivo, come il grillo parlante collodiano.
L’ultima parte del film, per l’ambientazione parigina e in interni, l’atmosfera tetra e il profondo senso di solitudine che ne traspare ricorda quella di "Le chat – L’implacabile uomo di Saint-Germain" (1971) di Pierre Granier-Deferre. "Prima danza, poi pensa – Scoprendo Beckett", per quanto abbia una narrazione che a tratti pattina su un ghiaccio troppo sottile, è un film riuscita nella misura in cui ci restituisce Samuel Beckett non attraverso la sua opera, bensì il suo stesso spirito. E intanto per ulteriori buone prove del regista attendiamo, sperando non si tratti di…Godot.
cast:
Sandrine Bonnaire, Gabriel Byrne, Bronagh Gallagher
regia:
James Marsh
titolo originale:
Dance First
distribuzione:
Bim
durata:
100'
produzione:
2LE Media, Film Constellation, Proton Cinema, Sky Arts, Umedia
sceneggiatura:
Neil Forsyth
fotografia:
Antonio Paladino
scenografie:
Damien Creagh
montaggio:
David Charap
costumi:
Györgyi Szakács
musiche:
Sarah Bridge, Benoit Viellefon