Fotografare in presa diretta la morte di una democrazia. O, per meglio dire, la sua mancata nascita, visto che il paese in questione è lo Zimbabwe governato per quasi quarant’anni, dal 1980 al 2017, da uno dei più famigerati dittatori africani, Robert Mugabe.
È ciò che Camilla Nielsson fa in "President", il documentario sbarcato al Biografilm Festival (tra i più attesi della rassegna bolognese) dopo l’anteprima al Sundance, ove lo scorso febbraio si è aggiudicato uno dei premi speciali della giuria, quello per il Verité Filmmaking nella sezione World Cinema Documentary.
La storia non è così nota, soprattutto per chi non segue la cronaca internazionale – e quella dei paesi africani in particolare. Mugabe, destituito e costretto alle dimissioni da un colpo di stato militare nel novembre 2017, viene sostituito dal suo vice Mnangagwa, che indice le elezioni presidenziali per il luglio 2018, a cui parteciperà come front runner. Il suo principale concorrente muore di tumore a quattro mesi dall’appuntamento elettorale e viene sostituito da un avvocato quarantenne, già attivista per i diritti degli zimbabwani ai tempi di Mugabe, Nelson Chamisa. Le elezioni si terranno pacificamente, ma sulla loro regolarità iniziano a sorgere grossi dubbi, sia prima che – soprattutto – dopo lo spoglio.
Non serve dare anticipazioni – di fatti peraltro noti a livello di cronaca politica internazionale – per capire la piega che prenderanno gli eventi in questo documentario che per due terzi della sua durata ha il piglio dei più efficaci political thriller, di cui la regista danese cattura tutti gli stilemi, senza tuttavia perdere mai il contatto con la realtà, da buona seguace dell’opera di Wiseman, il cui tipico approccio focalizzato sull’osservazione vicina ma apparentemente terza e distaccata viene costantemente mantenuto.
Nella restante parte delle circa due ore di durata (che per inciso volano) il film segue invece l’impostazione del legal thriller, quando la contesa sui presunti brogli alle elezioni del 30 luglio si sposta nelle aule giudiziarie, quelle della corte suprema dello Zimbabwe, non si sa quanto autonoma e imparziale (come del tutto parziale sembra l’operato della ZEC, la commissione elettorale locale).
E sia nella prima che nella seconda parte tutto scorre fluidamente, senza gli abusati pareri e opinioni di soggetti terzi, senza le più o meno autorevoli interviste agli analisti che spesso guidano l’interpretazione dello spettatore, in questo caso lasciato alla mercé delle immagini in presa diretta, che lo colpiscono con la forza di dolorose scudisciate.
L’unico giudizio terzo che viene proposto nel film è quello degli osservatori internazionali, chiamati a verificare le operazioni di voto e che si profondono in un’imbarazzante e imbarazzata opera di equilibrismo retorico davanti alle domande della stampa internazionale, per la prima volta chiamata a fare da testimone alla (possibile, presunta) nascita di una democrazia dopo la fine di una dittatura. Quella stampa convocata dallo stesso Mnangagwa, perché nella contemporanea società globale dominata dai media (almeno nei paesi in cui ancora non si è passati al successivo stadio dell’influsso pervasivo dei social media), l’immagine che il potere vuole dare di sé all’esterno (anche, e non secondariamente, per legittimare un consenso interno traballante) passa necessariamente da un’almeno apparente trasparenza – o quanto meno dalla non palese mancanza di trasparenza.
E così protagonista di "President" non è tanto il pur ammirevole Nelson Chamisa, il contender idealista destinato all’atroce e antidemocratica beffa da parte del navigato, subdolo nuovo dittatore in pectore. A essere protagonista è la stessa macchina da presa che assiste, registra, documenta e lascia allo spettatore l’inevitabile giudizio: sicuramente parziale, innegabilmente veicolato, ma pressoché inconfutabile. Quella macchina da presa diventa sguardo critico, ben più dell’opera degli impotenti osservatori internazionali e della stampa, la quale non può che limitarsi a porgere domande (in situazioni spesso surreali) e a registrare momenti di tensione tipici dei regimi che pensano di crearsi una ulteriore legittimazione da un disordine talvolta anche violento.
Gli scontri nelle strade di Harare rappresentano l’amaro epilogo di un’utopia collettiva fotografata con coinvolgente partecipazione nelle straordinarie sequenze dei comizi di massa di Chamisa, quando un futuro diverso sembrava possibile. Quando una nuova democrazia sembrava poter nascere, mentre invece finisce per essere defunta ancor prima di vedere la luce.
È grande cinema documentario, prima ancora di essere grande reportage.
regia:
Camilla Nielsson
durata:
130'
produzione:
Final Cut for Real, Medieoperatørene
fotografia:
Henrik Bohn Ipsen
montaggio:
Jeppe Bødskov
musiche:
Jonas Colstrup