Enzo D'Alò, regista napoletano che ha oggi quasi sessant'anni, esordì nel 1996 con "La freccia azzurra" che fu un sorprendente successo, ancor più rilevante se consideriamo lo scarso interesse delle produzioni italiane per il cinema d'animazione. Dopo sedici anni la situazione non è cambiata di molto e D'Alò si è ripresentato alla scorsa
Mostra del Cinema di Venezia con un progetto che insegue da sempre, liberamente ispirato al classico per l'infanzia di Collodi, alla cui scrittura ha collaborato Umberto Marino e di cui aveva già realizzato un trailer nel 2000 (chissà se il colossale flop di Benigni ne ha rallentato la produzione).
Fondali e personaggi hanno avuto il prestigioso apporto dei disegni di Lorenzo Mattotti, uno dei fumettisti e illustratori più premiati degli ultimi tempi. E, infatti, l'arte di Mattotti non si smentisce nemmeno confrontandosi col cinema: i colori dei paesaggi che si confondono illuminando le scene di magenta e giallo, azzurro e verde, diventano il cuore visivo dell'operazione. Al contrario il
character design ha i tratti morbidi tipici dei personaggi di D'Alò, che si pongono allo spettatore come immediatamente simpatetici e strizzano l'occhio a un modo di fare cinema d'animazione forse fuori tempo massimo, rivolgendosi strettamente a un pubblico infantile. Un'animazione vecchio stampo, semplice ed essenziale, di cui abbiamo visto recentemente un pregevole esempio proveniente dalla Francia, cioè "
Ernest & Celestine" di Aubier, Patar e Renner.
Eppure il film daloiano, nonostante l'idea di intrattenimento fanciullesca e disneyana, dimostra di avere anche delle ambizioni sul piano artistico.
La storia del burattino più famoso del mondo si può analizzare tranquillamente attraverso due piani distinti: esteticamente si racconta soprattutto attraverso esplosioni visionarie, campiture di colore fantasiose che hanno i loro acuti nelle scene notturne con il Gatto e la Volpe e nella discesa negli inferi allucinanti del Paese dei Balocchi; sul piano narrativo, invece, paga una certa mancanza di fluidità e, per dirlo con un termine ben poco tecnico, l'opera daloiana è narrativamente "moscia". Vale la pena aprire una parentesi sulla dicitura "liberamente ispirato all'opera
Pinocchio di Carlo Collodi": D'Alò si è preso alcune libertà ma a ben vedere sono poche e, in particolare, sembrano voler sottolineare per contrasto i momenti ormai mitici dell'opera originaria. Le peripezie di Pinocchio hanno accelerazioni frettolose, il ritmo segue un andamento discontinuo e, di conseguenza, diviene evidente che la sceneggiatura presenta il grosso limite di non aver avuto la capacità di andare oltre nella personale rilettura dell'opera letteraria. L'atmosfera fiabesca che si respira a partire dalle canzoni di
Lucio Dalla, che sono filastrocche un po' patetiche che i bambini possono subito memorizzare, sono anch'essi elementi di una miscela eterogenea in cui tutto non combacia alla perfezione, poiché le ambizioni artistiche non si ancorano veramente al racconto. Se, come abbiamo accennato, sono rimarchevoli alcune immagini e alcune sequenze in cui la fantasia di Mattotti si sprigiona (pensiamo a quella onirica con una stilizzazione da incubo) e D'Alò si dimostra ancora coraggioso nel voler tentare un progetto del genere nel contesto italiano, tirando le somme non si può non notare l'andamento sinusoidale dove, a momenti in cui vi è eccesso di
pathos, ne succedono altri in cui questo è assente, assistendo soltanto a un rapido sommario di accadimenti. "Pinocchio" è un'opera importante e piena di spunti di interesse, purtroppo solo parzialmente riuscita.
Il film è dedicato alla memoria di Lucio Dalla che ha finito di comporre la colonna sonora poco prima di morire di infarto nella notte del 1° marzo 2012.
25/02/2013