Pinocchio è un archetipo; un mito. Un mito lo puoi usare, enfatizzarne un tratto, piegarlo alla tua poetica, farlo diventare altro. Nel contrasto, se il lavoro è ben fatto, la tua idea, illuminata dall’archetipo, diverrà più potente. Il Pinocchio di Guillermo Del Toro è un inno alla libertà di essere diversi dalle aspettative di chi esercita l’autorità. Con sottigliezza, il senso degli elementi che compongono l’archetipo di Pinocchio non è mai semplicemente invertito, ma conserva un denominatore comune di fondo con l’opera di Collodi, che non risulta a conti fatti mai tradita. Un esempio su tutti: il paese dei balocchi. Nel film di Del Toro diventa la guerra. In apparenza dunque un’inversione di senso, dal gioco sfrenato alla costrizione militaresca. Invece il denominatore comune c’è, ed è pure piuttosto chiaro: il paese dei balocchi – come la guerra con la sua retorica – è un inganno. È il furto della vita e della libertà. Il fine ultimo del paese dei balocchi, cioè la trasformazione dei bambini in asini, non è diverso da quello di fare di una generazione di figli carne da cannone (che siano i padri a mandare in guerra i figli, è esplicito: il padre di Lucignolo è un gerarca fascista).
Poi, certo, c’è anche la nobilitazione, figlia del Novecento, di ciò che Collodi invece stigmatizza: così, le bugie si trasformano in strumento di salvezza (per evadere dal ventre della balena, le bugie di Pinocchio faranno del suo naso un albero, che permetterà di raggiungerne lo sfiatatoio posto lassù in alto).
Ma andiamo con ordine. Ripartiamo dall’inizio. Dal nome del figlio che Geppetto perde sotto i bombardamenti, in apertura: Carlo. Come Collodi. Naturalmente. Non voglio essere come Carlo!, dirà a un certo punto Pinocchio. Ossia: non voglio essere come il bambino che Collodi voleva che Pinocchio diventasse. Non voglio essere l’ideale di figlio cui Collodi voleva si confermasse il suo, di burattino, per poter diventare bambino. Il Carlo di Del Toro, in sostanza, rispecchia il bambino che Pinocchio deve diventare nel testo di Collodi.
Sta qui il cuore del film. La dialettica fra la libertà e le aspettative di chi esercita l’autorità. Pinocchio ha il diritto, e lo rivendica, di essere un bambino diverso da quel che vuole il padre. Geppetto vuole, invece, che il suo burattino sia la copia del figlio Carlo. Non importa davvero tanto che Pinocchio debba essere “bravo” o “obbediente”: importa che lo sia, certo, ma anzitutto perché lo era Carlo. Importa che, per il padre, sia come vorrebbe che fosse. In fondo quello che voleva Geppetto era un burattino, nient'altro. Un burattino lo comandi: ma Pinocchio, cui è stata donata la coscienza, i fili non li ha e non li vuole.
Nel parallelo tra paternità e autoritarismo impostato da Del Toro, l’ambientazione fascista acquista un senso preciso e non è solo un orpello posto a richiamare i due precedenti, nella filmografia di Del Toro, in cui i bambini si scontravano con la realtà orribile di un regime autoritario, in quel caso il franchismo (“La spina del diavolo” e “Il labirinto del fauno”). Il fascismo di questo Pinocchio non è che proiezione civile di un sistema autoritario che comincia in seno alla famiglia. E che è molto più universale di quanto potremmo credere oggi: appartiene infatti ad ogni generazione di padri, la tentazione di proiettare nei figli il desiderio che rispondano alle nostre aspettative, e un pochino ci somiglino.
Sorprendente e stimolante il lavoro compiuto sui simboli. Il Grillo parlante, in quanto Coscienza, qui diventa un alleato. È un animaletto che prende casa nel pino che diverrà Pinocchio prima ancora che esso venga intagliato. Riterrà quell’albero sempre casa sua. Lo abitava, come una coscienza un corpo. La metamorfosi più affascinante è quella della Fata turchina "madre" di Pinocchio, in Sfinge. Che accosta un altro mito, quello di Edipo. Edipo e Pinocchio sono archetipi che possono dialogare. Se Geppetto è il Padre… Pinocchio deve ucciderlo!, diranno subito i miei piccoli lettori. No, ragazzi, avete sbagliato. Di fronte all’enigma/libero arbitrio che gli presenta la Sfinge, Pinocchio compie la sua scelta, che è quella di diventare mortale, non più burattino di legno, per salvare il padre. Pinocchio è libero: così tanto libero da sacrificarsi e scegliere di divenire mortale per amore del padre. La libertà di Pinocchio non nasce dalla soppressione della figura paterna. Alla fine, volenti o meno, tocca riconoscere che, dopo quello di Pinocchio e quello di Edipo, fa capolino un terzo archetipo, che era presente già all’inizio: il Cristo crocefisso (sacrificatosi in nome del Padre), sulla cui comune sostanza di legno Pinocchio si era interrogato. A differenza della carne, il legno è immortale; ma nulla dura per sempre, e quindi, chissà… dice alla fine Del Toro, che dimostra di voler giocare con gli archetipi e riesce a farlo con intelligenza e con felicità, divertendosi a contaminarli.
Forse il film pecca di didascalismo. Tante cose sono esplicitate letteralmente, nella sceneggiatura. Ma non ci sembra un vero e proprio difetto, perché appare necessario che gli scostamenti dall’archetipo letterario siano adeguatamente sottolineati.
Abbiamo sinora trascurato le notazioni di stile solo per chiudere rilevando come le invenzioni figurative siano spesso notevoli. Ad esempio, l’ambientazione dell’aldilà dove finisce Pinocchio ogni volta che muore: i conigli-becchini vivono in uno scenario raccapricciante costituito da montagne di bare. Il film è fitto di dettagli inventivi, che consentono spesso all’ironia di fare irruzione: ad esempio sempre i conigli becchini, che vediamo timbrare il cartellino sul loro “luogo di lavoro”. Proprio nei dettagli, cui è stata posta grande cura, l’animazione a passo uno è particolarmente buona. Si pensi alle sfumature delle espressioni dei volti in primo piano (un esempio per tutti: gli occhi e le lacrime di Lucignolo). L’impressione generale è che le possibilità immaginifiche dell’animazione siano state assai ben sfruttate dal cineasta messicano, per consentire alla propria poetica di librarsi con particolare libertà.
Alla fine, tutto si chiude con un’allusione alla circolarità, accennata con chiarezza da una pigna: quella sfuggita di mano a Carlo morente, che torna nell’ultima inquadratura.
regia:
Guillermo Del Toro, Mark Gustafson
titolo originale:
Guillermo del Toro's Pinocchio
distribuzione:
Netflix
durata:
121'
produzione:
Netflix Animation, Jim Henson Productions, Pathé, ShadowMachine, Double Dare You Productions, Necrop
sceneggiatura:
Guillermo Del Toro, Patrick McHale
fotografia:
Frank Passingham
montaggio:
Ken Schretzmann
musiche:
Alexandre Desplat