Denaro, vendetta, famiglia. Il 18° film di Kim Ki-Duk riafferma il talento visionario del regista coreano dopo i passi falsi delle sue ultime pellicole in un dramma intenso e avvincente sul mondo del parassitismo usuraio. Kang-do è un trentenne solitario che lavora per uno strozzino, la sua missione è recuperare il credito maturato in esponenziali interessi dai poveri debitori della zona, tutti lavoratori in stato di precarietà economica. Crudeltà e sadismo alimentano le azioni del giovane sino a quando un giorno gli si presenta dinanzi a lui una donna che sostiene di essere sua madre. Il rifiuto del figlio abbandonato, cresciuto in solitudine e in disaffezione con il mondo, presto lascia spazio a un bisogno innato di fanciullesca maternità. Il carnefice, il macellaio, quello che soltanto il giorno prima regolava i conti mutilando e storpiando poveri innocenti, d’improvviso viene domato dal bisogno di raccogliere tutto ciò che sin dall’infanzia non gli era stato concesso.
Kim filma con fervore una parabola sul capitalismo estremo e sulle conseguenze che questo riflette sulle relazioni umane e interfamiliari. Adottando una messa in scena che sfiora più volte la tragedia greca, il regista si sofferma su un sentimento di pietà che sgorga dalla società contemporanea, soggiogata da violenza e soprusi e che trova nel dio denaro l’origine e la fine di tutte le cose. Inevitabilmente il titolo dell’opera si ricollega al capolavoro di Michelangelo, come testimoniato da una delle immagini di locandina, un’immagine che abbraccia il dolore e la sofferenza dell’umanità intera. La regia vivace ed eclettica non cade mai vittima del virtuosismo più sfrontato, anzi, aiuta il regista a non prendersi sul serio pur analizzando concetti importanti e di denuncia. Ecco allora che ironia ed egocentrismo fluiscono costantemente, tra una gamba fracassata e un braccio mozzato c’è posto per più di un sorriso, irrisione crudele, forse, di un mondo che non accetta il fatto di prendersi mai seriamente e che è destinato a non cambiare le sue radici, quelle insite nella natura di un uomo come l’avidità, la violenza o la vendetta. Imperfezioni di scrittura si ravvisano con facilità ma i colpi di scena non mancano e questo basta per coinvolgesi totalmente nel nuovo progetto del cinquantaduenne coreano.
Dopo una pausa di tre anni a seguito dell’incerto "
Dream" e dopo essersi immerso in ambito documentaristico con i personali "
Arirang" e "Amen", Kim Ki-Duk prosegue la sua filmografia all’insegna della coerenza, lui che nel corso di quindici anni ha da sempre privilegiato un cinema che sappia comunicare per mezzo della violenza, dello shock e della trasgressione ("L’isola", "La samaritana"). Lo conferma una delle sequenze più scabrose (forse la più) dell’intera rassegna: l’incesto madre-figlio che impatta sullo spettatore con una potenza devastante, tra urla lancinanti e dialoghi al limite dello scandalo. Impossibile rimanere imperturbabili nel cinema di Kim Ki-Duk.
27/08/2012