Due ragazze, Luisa e Renata, prigioniere in una soffocante realtà di provincia, decidono di dare una svolta alle loro vite ricattando un conoscente con il quale intrattengono relazioni sessuali a pagamento. Ben presto la situazione sfuggirà loro di mano, rischiando di coinvolgere l'innocente fidanzato albanese di Luisa.
Si teme quasi di precipitare in quel silenzio nero e inquieto dei titoli di testa, nella tensione centripeta di un abbraccio sempre sul punto di fagocitare l'intero pubblico. Quando, poi, lo sguardo si apre sul paesaggio, lo fa dall'alto, annullando l'orizzonte fino a schiacciare il panorama nelle maglie di una tappezzeria suburbana che è il trionfo dell'alienazione, con i suoi appezzamenti discontinui, i piccoli egoismi di frontiera e le grosse arterie stradali, che agevolano il flusso di merci e disperdono i contatti umani.
L'incipit di "Piccola patria" è già una dichiarazione di intenti, un manifesto che conchiude nell'evidenza di una realtà assunta a simbolo, l'indirizzo di un approccio che ha la cura e la precisione di uno studio entomologico. Il regista Alessandro Rossetto - qui alla sua prima prova nel lungometraggio di "finzione" (sempre che un tale discrimine abbia ancora senso in una tradizione ormai tesa a ingarbugliare messa in scena e realismo documentario) - non lascia che la macchina da presa insegua i personaggi fino a confondersi con essi, ma ne osserva le grette vicissitudini dalla prospettiva del ricercatore che dispone un vetrino, restituendo, nella vertigine di uno sguardo libero da quell'abitudine che si fa apatia e livella le impressioni quotidiane a un sostrato comune, l'immagine di un luogo estraneo e indifferente.
Pur nell'evidenza di una discrasia tra il grigiore delle nuove realtà industriali e il persistere - tutt'altro che fiero - di faticose radici agresti, è difficile comprendere, passeggiando nell'entroterra veneto, le reali ferite di un mondo rimasto intrappolato nel moltiplicarsi delle frontiere, sino a diventare estraneo a se stesso per aver rinunciato a ogni appartenenza. La macchina da presa di Rossetto si muove, così, tra villette isolate, muriccioli di cinta, capannoni abbandonati, garage abusivi, campi graffiati dalle macchine agricole, asettici centri commerciali, polverose stradine sterrate fino alla geometria verticale e ossessiva di un ricco hotel, che incombe sull'intorno del paesaggio con la forza straniante del monolite kubrickiano.
In un tale contesto di forzata stilizzazione, con l'occhio capace di tramutare l'orizzontalità esasperata del territorio nella percezione quasi astratta di forme bidimensionali, schiacciate e senza sfoghi, non sempre il rischio di autorialità viene contenuto e l'impressione di un sottile compiacimento nella scelta dei mezzi espressivi si fa, talvolta, impossibile da nascondere (si vedano certe ellissi nella parte centrale, cui difetta una precisa costruzione drammaturgica), ma è nei singoli momenti, più che nell'insieme, che va ricercato il valore del film, nelle rapide pennellate con cui sa dipingere caratteri e situazioni, negli affondi crudeli e tesissimi delle scene finali, persino nelle dispersive note pittoresche, rese ancor più feroci dall'aderenza a un modello di film-saggio che rifiuta di cedere alle deformazioni del tono satirico. I sorrisi strappati dal film di Rossetto sono, in questo senso, tra i più amari dell'anno, sintomatici del bisogno di un'assoluzione generalizzata, che guarisca la tremenda impressione di una complicità viziosa (ma troppo spesso mascherata dal folclore popolare e benedetta dalle strizzate d'occhio di chi sa che una colpa condivisa è meno ardua da sopportare) nei confronti di un'umanità ferita e colma di rancore, che continua a macerarsi nella propria solitudine.
Ecco, allora, che la "Piccola patria" del titolo oltrepassa i confini territoriali per farsi geografia mentale, emblema di una prigionia dettata dalla renitenza culturale di chi abdica al buon senso e oppone al raziocinio lo stimolo epidermico, ma pure dal fraintendimento del concetto di confine, non più percepito come luogo di incontro, ma baluardo contro una presunta barbarie dilagante, e, inoltre, dal ruolo della tradizione, ridotta a un catalogo di fiacchi luoghi comuni sulla secolare produttività del nord e pronta a farsi appiglio per le spinte autonomiste.
Nonostante la freddezza di uno sguardo che capta brandelli di vita mantenendosi sempre alla giusta distanza dagli eventi (e si vedano le frequenti riprese attraverso un tendaggio o un vetro opaco, che sfocano i volti dei personaggi in forme astratte), il cinema di Rossetto è tutt'altro che il trionfo di un'oggettività mai partecipe. Gli attori vibrano, infatti, di un'intensità rara, favoriti nell'immedesimazione dall'impiego del dialetto (e si veda l'importanza del dato linguistico anche nelle fantasticherie di Luisa, che si esprime in veneto, ma vuole imparare il cinese) e dal ricorso a una pratica recitativa che li spinge a improvvisare davanti alla macchina da presa, fedeli non ai dettami della sceneggiatura, ma ai movimenti più nascosti delle psicologie dei personaggi.
Cinema di intuito, dunque, oltre che di corpi e linguaggio, quello di Alessandro Rossetto, che ci regala con "Piccola patria" un esordio sincero e appassionato, capace, per quanto non esente da alcune cadute di tono nella resa drammaturgica, di inquadrare con indubbia efficacia il nodo della dilagante mediocrità morale, tanto più pericolosa in quanto nutrita di superficialità. E, sebbene i grotteschi sviluppi delle più recenti vicende secessioniste spingano a focalizzare il discorso sul Nord Est, ci si guardi bene dall'imporre un'univoca collocazione geografica al dramma di questi personaggi: il malessere di cui ci parla Rossetto è una condizione mentale e non necessita affatto di paletti e filo spinato per manifestarsi.
cast:
Maria Roveran, Roberta Da Soller, Vladimir Doda, Diego Ribon, Lucia Mascino, Mirko Artuso
regia:
Alessandro Rossetto
distribuzione:
Cinecittà Luce
durata:
111'
produzione:
Arsenali Medicei, Jump Cut
sceneggiatura:
Caterina Serra, Alessandro Rossetto, Maurizio Braucci
fotografia:
Daniel Mazza
scenografie:
Renza Mara Calabrese
montaggio:
Jacopo Quadri
musiche:
Paolo Segat, Alessandro Cellai, Maria Roveran
Due ragazze, Luisa e Renata, prigioniere in una soffocante realtà di periferia, decidono di dare una svolta alle loro vite ricattando un conoscente con il quale intrattengono relazioni sessuali a pagamento. Ben presto la situazione sfuggirà loro di mano, rischiando di coinvolgere l'innocente fidanzato albanese di Luisa.